Risarcimento Danni Per Trombosi Venosa Profonda

La trombosi venosa profonda (TVP) è una condizione clinica grave in cui si forma un coagulo di sangue all’interno di una vena profonda, generalmente a livello degli arti inferiori. Se non diagnosticata e trattata correttamente, la trombosi può evolvere in embolia polmonare, una complicanza potenzialmente letale. In molti casi, la TVP può essere prevenuta o curata tempestivamente, ma quando viene trascurata, sottovalutata o trattata in modo errato, si apre la strada a un possibile risarcimento per errore medico.

Secondo l’Agenzia Italiana del Farmaco, in Italia si registrano ogni anno oltre 60.000 casi di TVP, ma molti non vengono diagnosticati per tempo, soprattutto in ambito ospedaliero, dove la profilassi antitrombotica dovrebbe essere un protocollo standard nei pazienti a rischio. Quando ciò non avviene, o quando i sintomi vengono ignorati, il paziente può subire danni permanenti o addirittura morire per embolia. In tali casi, è possibile ottenere un risarcimento danni, a patto che si dimostri l’errore o l’omissione del personale medico.

Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.

Cos’è la trombosi venosa profonda e perché è pericolosa?

La trombosi venosa profonda (TVP) è una condizione medica in cui si forma un coagulo di sangue (trombo) all’interno di una vena profonda, più comunemente nelle gambe o nelle cosce. Questa ostruzione parziale o totale del flusso venoso può passare inosservata nei primi stadi, ma comporta rischi molto seri per la salute, soprattutto se non viene diagnosticata e trattata in tempo.

La pericolosità della trombosi venosa profonda non sta solo nel blocco locale della circolazione, ma nella possibilità che il coagulo si stacchi e raggiunga i polmoni, provocando un’embolia polmonare: una complicanza potenzialmente fatale che può causare difficoltà respiratorie improvvise, dolore toracico, tachicardia e, nei casi più gravi, arresto cardiaco. Proprio per questo motivo, la TVP viene considerata un’emergenza medica silenziosa ma estremamente insidiosa.

I sintomi della trombosi non sono sempre evidenti. Alcuni pazienti riferiscono gonfiore a una gamba (soprattutto al polpaccio), dolore profondo e persistente, sensazione di calore e arrossamento cutaneo nella zona interessata. Altri invece non avvertono nulla, rendendo ancora più difficile la diagnosi precoce. In certi casi, la prima manifestazione della trombosi è proprio l’embolia polmonare.

I principali fattori di rischio includono immobilizzazione prolungata (dopo interventi chirurgici, lunghi viaggi in aereo o ricoveri a letto), traumi agli arti inferiori, gravidanza, obesità, fumo, terapie ormonali, tumori e predisposizione genetica alla coagulazione. Anche le persone che hanno già avuto una trombosi in passato sono più esposte a recidive.

La diagnosi si basa su esami specifici, in particolare l’ecocolordoppler delle vene, che consente di visualizzare la presenza del coagulo. In alcuni casi si utilizzano anche esami del sangue per valutare i livelli di D-dimero, un indicatore della formazione di trombi.

Il trattamento della trombosi venosa profonda ha l’obiettivo principale di bloccare l’estensione del coagulo, prevenire la sua migrazione verso i polmoni e ridurre il rischio di recidive. Vengono solitamente prescritti farmaci anticoagulanti, come l’eparina o i nuovi anticoagulanti orali (NAO), e, nei casi più gravi, si può ricorrere a trombolitici o a interventi per rimuovere meccanicamente il coagulo.

In alcuni pazienti, la TVP può lasciare esiti a lungo termine, come la sindrome post-trombotica, caratterizzata da dolore cronico, gonfiore, alterazioni della pelle e ulcere venose. Questa complicanza peggiora notevolmente la qualità della vita, soprattutto se non viene gestita con calze elastiche e follow-up medico.

In sintesi, la trombosi venosa profonda è pericolosa perché può evolvere rapidamente in embolia polmonare e causare danni irreversibili o la morte. È fondamentale riconoscerne i segnali, intervenire tempestivamente e, quando possibile, adottare misure preventive nei soggetti a rischio. Una semplice ecografia può fare la differenza tra una cura efficace e una complicanza potenzialmente letale.

Quali sono gli errori medici più comuni nella gestione della TVP?

La trombosi venosa profonda (TVP) rappresenta una condizione clinica insidiosa, capace di colpire anche pazienti giovani e apparentemente sani, e in grado di causare gravi conseguenze se non diagnosticata e trattata correttamente. Malgrado gli importanti progressi della medicina, nella gestione della TVP si continuano a riscontrare errori medici ricorrenti, che possono mettere a repentaglio la vita del paziente o lasciare conseguenze permanenti, come la sindrome post-trombotica o l’embolia polmonare. La questione non è soltanto clinica: è anche giuridica, perché l’errore nella diagnosi o nella terapia di una trombosi può configurare una responsabilità sanitaria, con conseguente diritto del paziente al risarcimento dei danni.

Uno degli errori più comuni è senza dubbio la sottovalutazione dei sintomi iniziali. Il dolore al polpaccio, il gonfiore improvviso di un arto inferiore, la sensazione di calore o la comparsa di arrossamenti vengono spesso interpretati come semplici manifestazioni muscolari o problemi ortopedici banali. Questo accade frequentemente nei pronto soccorso o negli ambulatori territoriali, dove la pressione assistenziale e la carenza di tempo possono condurre a diagnosi affrettate. In molti casi la TVP viene confusa con una sciatalgia, con una tendinite o con una semplice contusione, soprattutto se il paziente non presenta fattori di rischio evidenti. Tuttavia, la letteratura medica ha da tempo dimostrato che anche soggetti giovani e sportivi possono sviluppare trombosi venosa in seguito a lunghi viaggi, disidratazione, terapie ormonali o predisposizione genetica.

Non meno frequente è l’errore di non richiedere tempestivamente un ecocolordoppler degli arti inferiori. Questo esame, non invasivo e di facile accesso, è lo strumento principale per la diagnosi di una trombosi. Eppure, capita spesso che i pazienti vengano dimessi con una semplice prescrizione di antidolorifici o con l’indicazione di “riposo” e “monitoraggio”, senza essere sottoposti a esami strumentali. Alcuni medici ritengono erroneamente che la TVP sia sempre accompagnata da segni evidenti, come gonfiore massiccio o cianosi dell’arto, quando in realtà oltre il 50% delle trombosi si presenta in forma subacuta o con sintomatologia sfumata, specie nei pazienti obesi o anziani.

Un altro errore significativo riguarda la gestione terapeutica. Una volta posta diagnosi di TVP, è fondamentale avviare rapidamente una terapia anticoagulante adeguata. L’eparina a basso peso molecolare, i nuovi anticoagulanti orali (NOAC) o il warfarin sono le principali opzioni disponibili, ma la loro somministrazione richiede una valutazione precisa di vari fattori: età, funzionalità renale, rischio emorragico, peso corporeo e farmaci concomitanti. Talvolta, però, si assiste a una prescrizione automatica, priva di personalizzazione, oppure a dosaggi errati. In alcuni casi viene omessa del tutto la terapia anticoagulante, soprattutto nei soggetti dimessi in autonomia o in strutture di lunga degenza, dove la continuità terapeutica non è garantita. La conseguenza è il rischio concreto che il coagulo possa migrare verso i polmoni, generando un’embolia potenzialmente letale.

Errore non meno grave è l’assenza di una corretta educazione del paziente. Molti soggetti affetti da TVP non vengono informati dei sintomi d’allarme dell’embolia polmonare – come il dolore toracico improvviso, la difficoltà respiratoria o la tachicardia – e quindi non si recano tempestivamente in ospedale in caso di peggioramento. Allo stesso modo, non vengono istruiti sull’importanza di indossare calze elastiche graduate o sulla necessità di evitare lunghi periodi di immobilità, fattori che possono prevenire la recidiva o la progressione della malattia. L’errore non è solo clinico, ma anche comunicativo: il medico ha il dovere di informare, spiegare, rendere il paziente consapevole della sua condizione e dei comportamenti da adottare per proteggersi.

Da non sottovalutare, inoltre, l’errore nella gestione dei fattori di rischio. Esistono condizioni che aumentano notevolmente la probabilità di sviluppare una trombosi: la gravidanza, la terapia estrogenica, la neoplasia, l’intervento chirurgico recente, la coagulopatia ereditaria. In presenza di questi elementi, il medico dovrebbe attivare misure preventive precise, come la profilassi con eparina o l’uso di calze compressive. Tuttavia, in molte strutture ospedaliere la valutazione del rischio trombotico non viene effettuata in modo sistematico, e la profilassi viene trascurata o ritardata. Questo accade spesso nei reparti di ortopedia o chirurgia generale, dove l’attenzione si concentra sull’intervento e non sulle sue possibili complicanze vascolari.

Uno dei casi più emblematici è rappresentato dai pazienti oncologici. Essi presentano un rischio trombotico estremamente elevato, sia per la neoplasia stessa che per le terapie chemioterapiche e la prolungata immobilizzazione. Eppure, non sempre ricevono un’adeguata profilassi antitrombotica. Spesso la paura di emorragie induce i medici a non somministrare eparina, anche quando le linee guida lo raccomandano espressamente. La gestione della TVP in ambito oncologico è delicata, ma proprio per questo richiede competenze specifiche e un equilibrio consapevole tra rischi e benefici.

Altro ambito critico è quello delle strutture per anziani e disabili. In questi ambienti, la TVP rappresenta una minaccia silenziosa ma frequente, a causa dell’immobilità, delle comorbidità e dell’uso di farmaci sedativi. La mancanza di personale qualificato e la scarsa attenzione clinica conducono spesso alla diagnosi tardiva o alla sottovalutazione della sintomatologia, con conseguenze anche letali. In molti casi, la trombosi viene scoperta solo dopo un ricovero urgente per embolia polmonare, quando ormai è troppo tardi per intervenire efficacemente.

Gli errori possono manifestarsi anche nella fase di follow-up. Dopo una trombosi, è essenziale monitorare l’andamento della terapia anticoagulante, eseguire esami del sangue, controllare l’INR (nel caso di warfarin) o verificare l’aderenza alla terapia con NOAC. Tuttavia, molti pazienti vengono abbandonati al proprio destino dopo la dimissione, senza un programma di controllo o una rivalutazione specialistica. Questo aumenta il rischio di recidiva, complicanze o interazioni farmacologiche pericolose.

In ambito medico-legale, questi errori costituiscono la base per numerose azioni risarcitorie. Il Tribunale ha spesso riconosciuto la responsabilità sanitaria nei casi in cui la trombosi venosa profonda sia stata trascurata, mal curata o diagnosticata in ritardo, soprattutto se ha comportato danni permanenti o decessi. In molti giudizi civili, la consulenza tecnica d’ufficio ha evidenziato come la corretta applicazione delle linee guida avrebbe potuto evitare l’evoluzione fatale dell’evento trombotico. L’omissione di un esame diagnostico, l’errata prescrizione della terapia, il mancato monitoraggio o la scarsa comunicazione con il paziente sono stati ritenuti elementi sufficienti a dimostrare la colpa del medico o della struttura.

Un esempio emblematico è quello di una giovane donna dimessa dal pronto soccorso con una diagnosi di contrattura muscolare, nonostante lamentasse dolore e gonfiore alla gamba destra da diversi giorni. Nessuno le prescrisse un ecocolordoppler, né le fu consigliato un controllo successivo. Tre giorni dopo morì per embolia polmonare massiva. I periti accertarono che la giovane aveva assunto un contraccettivo orale combinato, noto fattore di rischio trombotico, e che la diagnosi tempestiva avrebbe consentito la sopravvivenza con una probabilità superiore al 90%. I familiari ottennero un risarcimento di oltre 800.000 euro.

Analoghi casi si sono verificati in pazienti anziani, allettati in strutture residenziali, dove la TVP si è sviluppata silenziosamente e si è manifestata solo con l’embolia polmonare fatale. I giudici hanno ritenuto che l’assenza di profilassi e la mancata sorveglianza clinica configurassero una colpa grave della struttura sanitaria, soprattutto quando non erano state adottate misure minime come il posizionamento di calze elastiche, il mobilizzo passivo o l’eparina a basso dosaggio.

La TVP è una patologia prevedibile, diagnosticabile e trattabile, se gestita secondo criteri scientifici e con attenzione al singolo paziente. L’errore medico, in questo ambito, è tanto più grave quanto più evitabile. Le linee guida internazionali dell’ACCP (American College of Chest Physicians) e dell’ESC (European Society of Cardiology) offrono strumenti precisi per valutare il rischio trombotico, decidere la terapia, scegliere la durata del trattamento e pianificare il follow-up. Ignorarle o applicarle con superficialità espone il medico a gravi responsabilità, sia deontologiche che legali.

In conclusione, la gestione corretta della trombosi venosa profonda non è solo una questione clinica, ma una responsabilità etica e giuridica. Ogni errore, anche quello che può apparire piccolo o marginale, può avere conseguenze devastanti per il paziente. L’appropriatezza delle cure, l’attenzione ai sintomi, la tempestività diagnostica, la personalizzazione della terapia e la corretta informazione al paziente rappresentano i capisaldi di una medicina sicura e giusta. Quando questi elementi vengono meno, non si parla più soltanto di negligenza, ma di mancato rispetto della dignità e del diritto alla salute della persona.

Quando si configura la responsabilità medica per trombosi venosa profonda?

La responsabilità medica per trombosi venosa profonda (TVP) si configura quando il personale sanitario omette di prevenire, diagnosticare o trattare tempestivamente una condizione prevedibile e gestibile, causando un danno al paziente che si sarebbe potuto evitare con una condotta corretta. La TVP, infatti, è una complicanza ben nota, soprattutto in contesti clinici ad alto rischio, e l’errore può consistere tanto nella sottovalutazione del pericolo quanto nell’inadeguatezza della terapia adottata.

Uno dei casi più frequenti in cui si configura responsabilità è l’assenza di misure di prevenzione della trombosi nei pazienti immobilizzati, ad esempio dopo interventi chirurgici ortopedici, addominali, oncologici o durante lunghi ricoveri ospedalieri. Quando un paziente ha un profilo di rischio noto – come età avanzata, obesità, pregressa trombosi, terapie ormonali, patologie tumorali – è dovere del medico valutare l’opportunità di prescrivere la profilassi anticoagulante o l’utilizzo di calze elastiche a compressione graduata. Non farlo, oppure farlo in modo tardivo o scorretto, può rappresentare una grave omissione.

Un’altra ipotesi di responsabilità si verifica quando i sintomi di una trombosi in atto vengono trascurati o interpretati erroneamente. Gonfiore improvviso a una gamba, dolore al polpaccio, aumento della temperatura cutanea o colorazione violacea sono segnali classici che devono portare il medico a sospettare subito una TVP e richiedere un esame ecodoppler venoso. Se si sottovalutano questi segni, attribuendoli ad esempio a un problema muscolare o a una semplice contusione, si può perdere tempo prezioso e favorire la progressione del coagulo.

La responsabilità medica può emergere anche nel momento in cui la terapia anticoagulante viene gestita in modo scorretto: dosaggi inadeguati, monitoraggio insufficiente del tempo di coagulazione, mancanza di follow-up. In casi simili, la TVP può peggiorare, estendersi o evolversi in un’embolia polmonare, con conseguenze anche letali. Se ciò accade per negligenza, imprudenza o imperizia, si configura pienamente una responsabilità sanitaria.

Esistono poi situazioni in cui il medico non valuta adeguatamente il rischio trombotico in sede di dimissione, lasciando il paziente privo di istruzioni precise, senza prescrizione di terapia anticoagulante né indicazioni per l’uso di presidi compressivi, pur in presenza di fattori predisponenti. Anche in questo caso, se la TVP insorge poco dopo il rientro a casa, il comportamento omissivo può essere fonte di responsabilità.

Perché sia accertata giuridicamente la responsabilità medica, è necessario dimostrare tre elementi fondamentali:

  1. La violazione degli obblighi di diligenza, perizia o prudenza da parte del sanitario o della struttura.
  2. Il danno subito dal paziente (biologico, estetico, morale, patrimoniale).
  3. Il nesso causale tra l’errore del medico e il danno stesso, stabilito mediante perizia medico-legale.

In conclusione, la trombosi venosa profonda non è una complicanza imprevedibile: esistono linee guida consolidate che impongono al medico di prevenirla nei contesti a rischio e di riconoscerla quando si manifesta. Quando ciò non avviene per negligenza, e il paziente subisce un danno evitabile, la responsabilità medica è configurabile e dà diritto al risarcimento.

Chi ha diritto al risarcimento e quali danni sono indennizzabili?

Può richiedere il risarcimento:

  • Il paziente, se sopravvive con danni permanenti: trombosi cronica, ulcere venose, sindrome post-trombotica, embolia polmonare invalidante;
  • I familiari, in caso di morte del paziente, con risarcimento per perdita parentale.

I danni risarcibili includono:

  • Danno biologico: lesioni fisiche permanenti o temporanee;
  • Danno morale ed esistenziale, per sofferenza e peggioramento della qualità della vita;
  • Danno patrimoniale: spese mediche, perdita di reddito, necessità di assistenza;
  • Danno da perdita del rapporto familiare, in caso di decesso.

Quali leggi regolano il risarcimento per trombosi venosa profonda?

Il quadro normativo italiano è chiaro e consolidato:

  • Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017): disciplina la responsabilità sanitaria e prevede obbligo assicurativo per medici e strutture;
  • Articolo 2043 del Codice Civile: consente il risarcimento per danno ingiusto;
  • Articolo 1218 del Codice Civile: responsabilità contrattuale in ambito medico;
  • Articoli 590 e 589 del Codice Penale: lesioni personali e omicidio colposo;
  • Linee guida ministeriali e raccomandazioni internazionali sulla prevenzione e gestione della TVP.

Esempi di risarcimenti ottenuti per trombosi venosa profonda mal gestita

  • Caso di paziente oncologico non sottoposto a profilassi dopo chemioterapia: sviluppa trombosi con embolia polmonare non fatale ma invalidante.
    Risarcimento: 470.000 euro.
  • Caso di donna operata al ginocchio e dimessa senza eparina: muore 4 giorni dopo per embolia massiva.
    Risarcimento ai familiari: 680.000 euro.
  • Caso di uomo ricoverato in medicina generale senza calze antitrombo e terapia profilattica: sviluppa TVP bilaterale con danni permanenti.
    Risarcimento: 510.000 euro.

A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento per trombosi venosa profonda?

La TVP mal diagnosticata o non prevenuta è una delle forme più frequenti e gravi di malasanità silenziosa. Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità, in collaborazione con medici legali, angiologi e esperti in responsabilità sanitaria, offrono:

  • Valutazione gratuita della documentazione clinica;
  • Redazione di perizie medico-legali a supporto della richiesta risarcitoria;
  • Assistenza in mediazione, trattative stragiudiziali e cause civili;
  • Difesa dei diritti dei pazienti e delle famiglie, anche in caso di morte.

Conclusioni: prevenibile ma spesso trascurata

La trombosi venosa profonda è una patologia prevedibile e gestibile. Quando viene sottovalutata, l’errore può costare una vita. Non lasciare che un evento evitabile resti impunito.

Agisci subito: i termini per avviare una causa sono limitati e la documentazione clinica deve essere analizzata il prima possibile. Se sospetti di aver subito un errore sanitario o un tuo caro è deceduto per embolia dopo un ricovero, contatta oggi stesso gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.

La prima consulenza è gratuita e riservata. La giustizia inizia da una voce che non accetta il silenzio.

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