Infezione Post-Operatoria Non Diagnosticata E Risarcimento Danni

L’infezione post-operatoria è una delle complicanze più temute e frequenti dopo un intervento chirurgico. Può manifestarsi con febbre, dolore, rossore, gonfiore, fuoriuscita di pus, alterazioni dei parametri ematici o peggioramento dello stato generale. Quando non viene riconosciuta e trattata tempestivamente, può degenerare in ascesso, deiscenza della ferita, sepsi, insufficienza multiorgano o addirittura nel decesso del paziente.

Gli ospedali e il personale sanitario hanno il dovere di sorvegliare, prevenire, diagnosticare e curare in modo tempestivo le infezioni correlate all’assistenza (ICA). Se si verifica un errore diagnostico, un ritardo terapeutico o una condotta negligente, il paziente ha diritto a un risarcimento per i danni subiti.

In questo articolo analizziamo le cause più comuni di infezione post-operatoria non diagnosticata, le normative aggiornate al 2025, i casi risarciti dai tribunali, i dati clinici rilevanti e le modalità per ottenere giustizia.

Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.

Quali sono le cause più comuni della mancata diagnosi di infezione post-operatoria da parte di un medico?

L’infezione post-operatoria rappresenta una delle complicanze più frequenti e temibili in ambito chirurgico, con un impatto significativo sulla morbidità, sui tempi di degenza, sui costi sanitari e, nei casi più gravi, sulla mortalità. Nonostante i protocolli di prevenzione, profilassi antibiotica e monitoraggio post-chirurgico, l’infezione può passare inosservata o essere diagnosticata tardivamente, con conseguente peggioramento del decorso clinico. Le ragioni alla base di questa mancata o ritardata diagnosi sono molteplici e si collocano sia sul piano clinico che su quello organizzativo, decisionale e interpretativo.

Una delle principali cause è la presentazione clinica iniziale non specifica o sfumata. I primi segni di infezione possono essere sottili: un modesto rialzo febbrile, una tachicardia inspiegata, una lieve leucocitosi, una sensazione soggettiva di malessere o di dolore “diverso” nella sede chirurgica. In un contesto post-operatorio, questi sintomi possono essere facilmente attribuiti a una normale risposta infiammatoria da trauma chirurgico. Distinguere tra infiammazione fisiologica e infezione in fase precoce richiede attenzione, esperienza e prudenza. Se il medico non mantiene un alto livello di sospetto, può interpretare erroneamente i segnali come parte del decorso atteso.

Un’altra causa frequente è l’affidamento eccessivo agli indicatori sistemici standard, che nelle fasi iniziali possono essere normali. La temperatura corporea, la conta leucocitaria e la PCR, seppur utili, non sempre mostrano alterazioni significative nelle prime 24-48 ore di un’infezione profonda. Inoltre, nei pazienti immunodepressi, oncologici o anziani, la risposta infiammatoria sistemica può essere attenuata o assente, mascherando il processo infettivo sottostante. In questi casi, la mancanza di dati di laboratorio alterati non deve mai escludere l’infezione come ipotesi diagnostica.

La localizzazione dell’infezione è un altro elemento critico. Le infezioni profonde del sito chirurgico (deep SSI), le infezioni intra-addominali o toraciche, le infezioni di impianti protesici o i focolai retroperitoneali sono difficili da identificare con l’esame obiettivo. Possono non dare segni esterni evidenti e non essere rilevabili con esami di primo livello come radiografie o ecografie. Se il medico si limita a un esame fisico superficiale, o se non richiede indagini di imaging avanzate (TAC, RMN, ecografia con mezzo di contrasto), la diagnosi può slittare anche di diversi giorni, fino alla comparsa di segni sistemici conclamati.

Un errore comune è la sottovalutazione del dolore localizzato che cambia qualità rispetto ai giorni precedenti. Un dolore che da sordo diventa pulsante, che aumenta invece di ridursi con il passare dei giorni, o che si accompagna a tumefazione, tensione dei tessuti o secrezioni locali, deve sempre far pensare a una raccolta infettiva in formazione. Tuttavia, in molti casi, il dolore viene trattato con analgesici senza una reale rivalutazione diagnostica. Il rischio è che si sedino i sintomi senza curarne la causa.

Una delle trappole più frequenti nella pratica clinica è la dipendenza dalle valutazioni seriate troppo distanziate nel tempo. Il follow-up post-operatorio, in ambito ambulatoriale o domiciliare, può non essere quotidiano. Se il paziente segnala telefonicamente malessere o febbricola, e la visita viene rimandata, la raccolta suppurativa può evolvere rapidamente. In ambito ospedaliero, la turnazione del personale e la frammentazione dell’assistenza possono portare a sottostimare segni clinici che evolvono nel tempo. La continuità nella valutazione del paziente è essenziale per cogliere variazioni sfumate ma significative.

Un’altra causa è la presenza di drenaggi o medicazioni che mascherano l’evoluzione locale. Una ferita chirurgica coperta da un bendaggio non sempre viene ispezionata in modo accurato. Se la medicazione non viene rimossa o cambiata con regolarità, la presenza di essudato purulento, di arrossamento cutaneo o di scollamento dei margini può passare inosservata. Anche la presenza di un drenaggio attivo può ingannare il medico, che interpreta lo scarico come normale, mentre in realtà è indice di infezione. Il colore, l’odore e la quantità del drenaggio devono sempre essere rivalutati in relazione al contesto clinico.

Un elemento critico è la bassa soglia diagnostica nella medicina d’urgenza e nei contesti a basso tasso di specializzazione chirurgica. In pronto soccorso, un paziente operato da pochi giorni che riferisce dolore o febbre può essere gestito come “riacutizzazione post-chirurgica”, con dimissione dopo somministrazione di antipiretici, senza imaging né approfondimenti. L’assenza di continuità tra il team chirurgico e il medico che valuta acutamente il paziente aumenta il rischio di errore.

La non conoscenza del tipo di intervento effettuato e delle sue possibili complicanze infettive specifiche rappresenta un ulteriore punto debole. Ogni intervento ha un proprio rischio infettivo e le sue sedi privilegiate di possibile complicazione. Un’ernia inguinale recidivata ha un profilo diverso rispetto a una colectomia, una protesi d’anca o un bypass coronarico. Se il medico non è informato sulle caratteristiche tecniche della procedura e sui dispositivi eventualmente impiantati, non sarà in grado di valutare correttamente i segni precoci di infezione.

Un altro fattore da considerare è l’eccessiva fiducia nella profilassi antibiotica perioperatoria. L’aver somministrato un antibiotico preventivo può generare un falso senso di sicurezza. Tuttavia, nessuna profilassi copre tutti i patogeni, né previene tutte le infezioni. Soprattutto in contesti ad alta carica microbica (chirurgia colo-rettale, urologica, ginecologica), l’infezione può insorgere anche dopo un’iniziale copertura. La persistenza di febbre oltre 48-72 ore dall’intervento, anche in assenza di leucocitosi marcata, richiede una rivalutazione.

La complessità della diagnosi è aumentata dalla possibile sovrapposizione con altre condizioni post-operatorie non infettive, come il versamento sieroso, l’ematoma, la deiscenza meccanica o l’irritazione da corpi estranei. In alcuni casi, la raccolta fluida non è purulenta al momento dell’esame, ma può evolvere secondariamente in infezione. Se si esegue un imaging e non si osserva un pattern tipico di ascesso, il medico può concludere erroneamente che non vi sia rischio. Ma l’evoluzione clinica deve sempre prevalere sulla fotografia statica dell’esame strumentale.

In ambito oncologico o in pazienti sottoposti a trattamenti immunosoppressivi, la diagnosi può essere ulteriormente ritardata per effetto della risposta infiammatoria attenuata. In questi soggetti, la febbre può essere assente, i segni locali modesti, e gli esami di laboratorio poco indicativi. La cultura ematica può essere negativa anche in presenza di un’infezione attiva localizzata. In questi casi, l’imaging precoce e la biopsia o aspirazione ecoguidata diventano strumenti diagnostici essenziali.

Infine, una comunicazione inefficace tra chirurgo, infermiere, medico internista e specialista infettivologo può ritardare l’attivazione del trattamento adeguato. La condivisione delle informazioni cliniche, l’integrazione tra osservazioni cliniche e dati di laboratorio, e la disponibilità ad ascoltare i sospetti degli altri membri del team sono fondamentali per non perdere i segnali deboli di un’infezione in atto. Il medico che lavora isolato, o che non considera con attenzione i rilievi infermieristici o le variazioni cliniche registrate da colleghi, rischia di arrivare alla diagnosi solo quando il quadro è già conclamato.

In conclusione, la mancata diagnosi di infezione post-operatoria è frutto di una combinazione di fattori clinici, cognitivi, organizzativi e comunicativi. Riconoscere tempestivamente un’infezione richiede una sorveglianza attiva, una conoscenza approfondita delle possibili evoluzioni chirurgiche, una disponibilità a mettere in discussione l’ipotesi iniziale e, soprattutto, un’attenzione continua all’evoluzione del paziente, anche in assenza di segni macroscopici. Ogni infezione identificata in ritardo comporta un costo clinico significativo, per il paziente e per il sistema. La medicina moderna non può permettersi di sottovalutare ciò che si può ancora prevenire con un’osservazione competente e rigorosa.

Quanto è pericolosa un’infezione post-operatoria non trattata?

Le infezioni del sito chirurgico possono portare a complicanze gravi, tra cui:

  • Ascessi profondi o necrosi tissutale;
  • Deiscenza della ferita o apertura spontanea dei punti di sutura;
  • Setticemia con rischio di shock settico;
  • Necessità di ulteriori interventi chirurgici correttivi o demolitivi;
  • Amputazioni, nei casi più gravi;
  • Danni estetici e funzionali permanenti;
  • Morte, soprattutto nei soggetti fragili o se la sepsi non viene gestita per tempo.

Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, circa il 5% degli interventi chirurgici in Italia comporta complicanze infettive, molte delle quali prevenibili o gestibili se diagnosticate precocemente.

Quando si configura la responsabilità medica per un’infezione post-operatoria non diagnosticata?

La responsabilità medica per un’infezione post-operatoria non diagnosticata si configura ogni qualvolta il medico o l’équipe chirurgica omette di riconoscere in tempo utile i segni clinici e laboratoristici di un’infezione insorta a seguito di un intervento chirurgico, nonostante la presenza di elementi oggettivi indicativi, determinando un aggravamento dello stato clinico del paziente, un prolungamento della degenza, la necessità di trattamenti invasivi ulteriori o, nei casi più gravi, il decesso. Le infezioni del sito chirurgico rappresentano una delle complicanze più temute nel periodo post-operatorio, e il loro riconoscimento precoce è parte integrante del processo di cura. Il monitoraggio attivo, sistematico e tempestivo delle condizioni del paziente costituisce un obbligo professionale non eludibile.

I segni di infezione post-operatoria possono manifestarsi con febbre persistente, arrossamento, calore, dolore e tumefazione nella sede chirurgica, secrezioni purulente, apertura spontanea della ferita, peggioramento delle condizioni generali o, nei casi più subdoli, con alterazioni dei parametri ematochimici quali leucocitosi, incremento della proteina C reattiva, elevazione della procalcitonina e della VES. In presenza di uno o più di questi segni, è dovere del medico procedere con gli accertamenti diagnostici del caso, tra cui esami microbiologici, ecografie, TAC o RMN, esame colturale della ferita o, se necessario, rivalutazione chirurgica. L’inerzia clinica di fronte a un sospetto infettivo è un comportamento gravemente colposo.

Il quadro diventa ancor più critico quando l’infezione post-operatoria si manifesta in pazienti ad alto rischio: diabetici, immunodepressi, anziani, pazienti con comorbidità cardiovascolari o sottoposti a interventi maggiori. In queste categorie, anche una febbricola o un dolore fuori sede devono essere valutati con attenzione, poiché possono rappresentare l’unico segnale precoce di un’infezione in atto. Il medico che sottovaluta questi segnali o li attribuisce ad ansia, stanchezza o semplice reazione infiammatoria post-chirurgica, viola il principio di precauzione clinica e mette il paziente in una condizione di rischio ingiustificabile.

Dal punto di vista medico-legale, la responsabilità per mancata diagnosi di infezione post-operatoria non riguarda la sola omissione iniziale, ma può estendersi all’intero decorso, se manca un monitoraggio strutturato, una rivalutazione dinamica o un follow-up adeguato. È compito dell’équipe sanitaria verificare, in modo continuo e documentato, l’andamento della ferita chirurgica, le condizioni generali, le risposte terapeutiche e la possibile comparsa di nuovi sintomi. Se il paziente segnala dolore crescente, secrezioni anomale, febbre persistente o peggioramento dello stato di coscienza e non riceve una valutazione mirata, il nesso di causalità tra l’omissione diagnostica e il danno subito diventa giuridicamente rilevante.

Nei reparti chirurgici, la prassi consolidata prevede la valutazione quotidiana della ferita, l’esame regolare dei parametri vitali, l’analisi dei dati ematochimici e, in caso di sospetto, l’immediata esecuzione di indagini strumentali. La responsabilità emerge ogniqualvolta uno o più di questi passaggi risultino omessi o condotti con superficialità. Non è sufficiente riportare la ferita “pulita” in cartella clinica se non è stato verificato lo stato di profondità, la presenza di raccolte, l’eventuale presenza di deiscenza dei margini o materiale purulento. La documentazione clinica ha valore medico, ma anche legale: ciò che non è scritto si presume non fatto.

Anche le dimissioni precoci, in presenza di segni infettivi non ancora chiariti, possono configurare una responsabilità. Se il paziente viene dimesso con febbre, dolore in aumento, wound leakage o alterazioni ematochimiche senza alcun piano di follow-up o trattamento antibiotico specifico, la decisione di interrompere il monitoraggio clinico può essere considerata imprudente. Nei casi in cui il paziente si ripresenta dopo pochi giorni in pronto soccorso con un’infezione conclamata o in stato settico, la condotta medica viene valutata ex post sulla base della prevedibilità dell’evoluzione clinica e della sua prevenibilità.

L’aspetto organizzativo non può essere trascurato. La responsabilità può estendersi anche alla struttura sanitaria quando il ritardo diagnostico dipende da mancanze sistemiche: referti consegnati in ritardo, ecografie richieste e mai eseguite, assenza di protocolli interni per la sorveglianza delle infezioni, errori nella gestione del diario clinico o nella comunicazione tra i membri dell’équipe. Una diagnosi mancata di infezione post-operatoria raramente è frutto di un singolo errore: più spesso si tratta di una catena di omissioni.

Nel contenzioso civile, l’accertamento della responsabilità medica si basa sul principio dell’evitabilità del danno. Il paziente, o i suoi eredi, non devono dimostrare che l’infezione non sarebbe mai insorta, ma che la sua diagnosi tempestiva avrebbe evitato la cronicizzazione, la necessità di un nuovo intervento, la comparsa di sepsi o la morte. La perdita di chance terapeutica e il peggioramento delle condizioni generali a causa del ritardo rappresentano danni risarcibili anche in assenza di invalidità permanente. In questi casi, il nesso causale si fonda sull’altissima probabilità, secondo la letteratura medica, che un trattamento antibiotico precoce o una revisione chirurgica tempestiva avrebbero modificato l’evoluzione clinica.

Le consulenze tecniche medico-legali esaminano la cronologia degli eventi, il contenuto della documentazione, la qualità dell’assistenza e la coerenza tra le condizioni cliniche del paziente e la condotta sanitaria tenuta. L’aderenza alle linee guida in materia di prevenzione, sorveglianza e trattamento delle infezioni post-operatorie è un parametro fondamentale nella valutazione dell’operato dei professionisti. Laddove venga accertata una discordanza tra quanto raccomandato e quanto fatto, la colpa medica può essere attribuita per negligenza, imprudenza o imperizia.

In conclusione, l’infezione post-operatoria non rappresenta di per sé una colpa del medico, ma la sua mancata diagnosi o il suo mancato trattamento tempestivo sì. L’attività clinica, soprattutto nel periodo successivo a un intervento chirurgico, richiede vigilanza, spirito critico, tempestività decisionale e una gestione accurata della documentazione. Quando questi requisiti vengono meno, il confine tra complicanza e responsabilità viene superato, e il diritto del paziente alla sicurezza delle cure diventa materia di accertamento e risarcimento.

Quali sono le normative di riferimento?

  • Legge Gelli-Bianco (Legge n. 24/2017): disciplina la responsabilità sanitaria e la prevenzione del rischio clinico;
  • Art. 2043 Codice Civile: danno ingiusto da fatto illecito;
  • Art. 2236 Codice Civile: responsabilità del professionista per colpa grave in materia tecnica;
  • Art. 1218 Codice Civile: responsabilità contrattuale della struttura sanitaria;
  • Art. 590 e 589 Codice Penale: lesioni personali colpose e omicidio colposo in ambito medico.

Quali sono gli esempi di risarcimento riconosciuto?

  • Infezione post-cesareo non diagnosticata per 5 giorni, con ascesso e successiva isterectomia: risarcimento di 980.000 euro;
  • Paziente operato di colecistectomia, deceduto per peritonite da infezione non trattata: risarcimento agli eredi di 1.250.000 euro;
  • Revisione chirurgica ritardata in caso di infezione ortopedica post-protesi: risarcimento di 1.100.000 euro;
  • Deiscenza della ferita addominale in seguito a infezione non riconosciuta: risarcimento di 890.000 euro;
  • Paziente oncologico dimesso con febbre e segni di infezione, ricoverato d’urgenza dopo 48 ore con sepsi: risarcimento di 1.050.000 euro.

A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento?

Se hai subito un danno da infezione post-operatoria non diagnosticata o mal gestita, è fondamentale:

  • Affidarti a un avvocato specializzato in malasanità chirurgica, con esperienza nelle infezioni ospedaliere;
  • Richiedere una perizia medico-legale specialistica, anche con supporto infettivologico e chirurgico;
  • Raccogliere tutta la documentazione: cartella clinica, esami, lettere di dimissione, consulenze, foto della ferita;
  • Agire legalmente in sede civile (e se necessario penale) per ottenere un equo risarcimento.

Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità operano con un’équipe multidisciplinare di chirurghi legali, infettivologi forensi e medici legali, per garantire al paziente una tutela piena, efficace e rapida.

Conclusione

Le infezioni post-operatorie vanno prevenute e, se si verificano, vanno riconosciute e curate subito. Quando ciò non avviene per negligenza medica, il paziente ha il diritto di ottenere giustizia.

Se sospetti che l’infezione post-chirurgica non sia stata gestita correttamente, agisci subito: il tempo è prezioso anche per tutelare i tuoi diritti.

Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici:

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