Infezione Urinaria Non Diagnosticata E Risarcimento Danni

L’infezione urinaria è una patologia molto comune che, se diagnosticata e trattata tempestivamente, ha quasi sempre un decorso benigno. Tuttavia, in presenza di fattori di rischio o se trascurata, può evolvere rapidamente in pielonefrite, urosepsi, insufficienza renale o shock settico. In particolare, gli errori nella diagnosi possono avere conseguenze gravissime in soggetti fragili come anziani, neonati, pazienti immunodepressi o con catetere.

Quando il medico non riconosce i sintomi tipici (febbre, bruciore, pollachiuria, dolore lombare), non prescrive gli esami necessari (urinocoltura, emocromo, esame urine) o ritarda la terapia antibiotica, può configurarsi una responsabilità professionale per negligenza. Se il paziente subisce un danno biologico, permanente o addirittura la morte, ha diritto a un risarcimento.

In questo articolo analizziamo le cause più frequenti della mancata diagnosi di infezione urinaria, le normative aggiornate al 2025, i dati clinici, i casi risarciti e le modalità per agire legalmente con l’aiuto di professionisti esperti.

Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.

Quali sono le cause più comuni della mancata diagnosi di infezione urinaria da parte di un medico?

L’infezione delle vie urinarie (IVU) è una delle condizioni infettive più frequenti nella pratica clinica, ma al tempo stesso anche tra le più facilmente soggette a sottovalutazione, misdiagnosi o mancato riconoscimento da parte del medico, specialmente in alcune popolazioni a rischio. Sebbene nei casi tipici la presentazione sia relativamente riconoscibile — disuria, pollachiuria, urgenza minzionale, dolore sovrapubico o lombare, urine torbide o maleodoranti — esistono numerosi scenari clinici in cui il quadro risulta atipico, incompleto o mascherato da altri sintomi, rendendo difficile formulare tempestivamente una diagnosi corretta.

Una delle principali cause di mancata diagnosi di IVU è la variabilità della presentazione clinica, in particolare nei soggetti anziani, nei pazienti immunocompromessi e nei portatori di catetere urinario. Nei pazienti geriatrici, ad esempio, l’infezione può manifestarsi prevalentemente con sintomi non specifici, come confusione mentale, cadute, deterioramento funzionale o delirium. In questi casi, il medico potrebbe focalizzarsi su cause neurologiche o metaboliche, senza sospettare un’infezione urinaria sottostante, soprattutto se non sono presenti febbre o dolore riferito. Il fenomeno è ulteriormente aggravato quando il paziente non è in grado di riferire sintomi in modo affidabile, come nel caso di demenza avanzata o afasia.

Anche nei soggetti più giovani, tuttavia, possono verificarsi quadri clinici fuorvianti. Alcune infezioni urinarie — in particolare le forme alte come la pielonefrite acuta — possono presentarsi con febbre isolata, dolore lombare vago o sintomi gastrointestinali quali nausea, vomito o diarrea, inducendo il medico a orientarsi erroneamente verso diagnosi di tipo influenzale o gastroenterico. Inoltre, in donne in età fertile, il dolore pelvico associato a disuria può essere confuso con condizioni ginecologiche (vaginiti, cerviciti, malattia infiammatoria pelvica), specialmente in assenza di piuria evidente o se l’esame delle urine è negativo per nitriti. Questa sovrapposizione di sintomi tra distretti urologico, intestinale e ginecologico rappresenta una zona grigia clinica ad alta probabilità di errore.

Un altro motivo ricorrente di mancato riconoscimento è la scarsa accuratezza nell’interpretazione degli esami di laboratorio, soprattutto dell’esame urine standard (stick urinario e sedimento). L’uso isolato del dipstick senza conferma con urinocoltura può generare falsi negativi in presenza di batteri non nitrato-riduttori, come lo Staphylococcus saprophyticus o Enterococcus faecalis. Inoltre, la mancanza di piuria non esclude la diagnosi, soprattutto in soggetti immunodepressi o con risposta infiammatoria attenuata. Talvolta l’urinocoltura viene omessa del tutto, o richiesta solo in seconda battuta, ritardando l’identificazione dell’agente eziologico e la corretta impostazione terapeutica.

Un ulteriore fattore è la presenza di condizioni concomitanti che confondono il quadro clinico, come l’incontinenza urinaria, le infezioni recidivanti o la presenza di batteriuria asintomatica. In particolare quest’ultima rappresenta un’area critica nella diagnosi differenziale: la batteriuria asintomatica, comune soprattutto negli anziani e nei diabetici, può essere scambiata per infezione attiva e viceversa, una vera IVU può essere erroneamente considerata una semplice colonizzazione se i sintomi sono lievi o atipici. Questo genera incertezza diagnostica, specialmente in contesti a bassa intensità di cura o in reparti non specialistici.

Nel paziente ospedalizzato, la mancata diagnosi di IVU è spesso associata alla presenza di catetere vescicale a permanenza. In questi casi, l’assenza di disuria o altri sintomi riferiti rende l’infezione più difficile da riconoscere, e i segni clinici sistemici come febbre o leucocitosi vengono spesso attribuiti ad altre cause, come polmoniti, flebiti da accesso venoso o infezioni da decubito. Se non si considera l’apparato urinario come potenziale fonte se non dopo aver escluso tutte le altre, si rischia di ritardare la diagnosi fino a che l’infezione non evolve in sepsi.

La scarsa attenzione alla storia clinica del paziente può costituire un ulteriore elemento di rischio. In pazienti con pregressi episodi di IVU complicate, con anomalie anatomiche delle vie urinarie o con nefrolitiasi nota, l’omissione di un’anamnesi dettagliata può portare a trascurare la possibilità di una recidiva o di un’infezione secondaria a un’ostruzione. In tali contesti, anche una lieve febbricola o un modesto rialzo degli indici infiammatori dovrebbe essere motivo di sospetto.

Una causa non trascurabile è legata alla mancanza di aggiornamento clinico su linee guida e criteri diagnostici. Le definizioni di IVU non sono statiche e variano tra contesti ambulatoriali, ospedalieri e in funzione della popolazione. L’adozione di criteri come quelli del CDC o dell’IDSA può non essere uniforme tra operatori, generando confusione nella distinzione tra infezione, colonizzazione e batteriuria. Inoltre, la non familiarità con i profili microbiologici locali può portare a sottovalutare infezioni da agenti meno comuni, resistenti o atipici.

In ambito pediatrico, la diagnosi può essere ancora più difficile. I lattanti e i bambini piccoli possono presentare sintomi estremamente generici come irritabilità, scarso appetito, ittero prolungato, febbre isolata. Se non si effettua un’analisi delle urine precoce con raccolta adeguata (sacca, catetere, o mitto pulito in base all’età), il sospetto può non essere nemmeno posto. Nei neonati e nei bambini sotto i due anni, ogni febbre senza fonte deve sempre includere una valutazione per IVU.

Infine, la pressione gestionale nei contesti di pronto soccorso o di medicina generale ad alto flusso può portare a decisioni affrettate e diagnosi orientate alla rapidità piuttosto che alla completezza. Quando il medico è costretto a valutare decine di pazienti in tempi ridotti, è più probabile che una IVU con sintomi atipici venga classificata erroneamente o trattata in modo empirico senza conferma. In alcuni casi, la sintomatologia urinaria viene addirittura riferita come secondaria o ignorata se non espressamente sollecitata.

In conclusione, la mancata diagnosi di un’infezione urinaria può derivare da una combinazione di fattori clinici, interpretativi, organizzativi e formativi. Il medico deve mantenere un alto livello di sospetto, soprattutto nei pazienti fragili, anziani o immunocompromessi, dove la presentazione può essere mascherata. È fondamentale integrare i dati clinici, di laboratorio e anamnestici per una valutazione globale, evitando sia gli eccessi di trattamento di batteriuria non complicata, sia — ancor più — il pericoloso ritardo nella diagnosi di IVU complicata o potenzialmente evolutiva.

Una valutazione clinica superficiale, un’interpretazione errata degli esami o un’assenza di follow-up possono trasformare un’infezione trattabile in una complicanza sistemica. Per questo motivo, la formazione continua, l’attenzione alle linee guida e l’approccio ragionato a ogni paziente restano gli strumenti migliori per ridurre il tasso di errori diagnostici anche in patologie apparentemente semplici.

Quanto è pericolosa un’infezione urinaria non diagnosticata?

Un’infezione urinaria non riconosciuta o trattata in ritardo può degenerare in:

  • Pielonefrite acuta, con rischio di ascesso renale e insufficienza renale acuta;
  • Sepsi urinaria (urosepsi), una delle principali cause di morte ospedaliera evitabile;
  • Necrosi papillare, che può compromettere in modo irreversibile il parenchima renale;
  • Shock settico, con rischio di morte soprattutto in anziani, diabetici e pazienti immunodepressi;
  • Danni neurologici, amputazioni o disabilità residua nei sopravvissuti alla sepsi.

Secondo i dati AGENAS e Ministero della Salute, l’urosepsi è responsabile di migliaia di decessi l’anno in Italia, molti dei quali avrebbero potuto essere evitati con una diagnosi tempestiva.

Quando si configura la responsabilità medica per diagnosi mancata di infezione urinaria?

La responsabilità medica per diagnosi mancata di un’infezione delle vie urinarie (IVU) si configura quando il professionista sanitario omette di riconoscere i sintomi tipici o atipici dell’infezione urinaria, non effettua gli accertamenti diagnostici appropriati o ritarda l’inizio della terapia antibiotica, determinando un peggioramento dello stato clinico, complicanze evitabili o danni permanenti a carico dell’apparato urinario o di altri sistemi. Le IVU rappresentano una delle patologie infettive più comuni, e il loro riconoscimento tempestivo è essenziale per prevenire la progressione verso forme severe, come la pielonefrite acuta, l’urosepsi o l’insufficienza renale acuta.

La sintomatologia delle IVU può presentarsi in modo tipico – disuria, pollachiuria, urgenza minzionale, stranguria, dolore sovrapubico, febbre – ma in una percentuale significativa di pazienti, specialmente anziani, diabetici, immunodepressi o portatori di catetere vescicale, i sintomi possono essere sfumati, atipici o assenti. In questi casi, la mancata attenzione alla clinica generale del paziente e l’omessa valutazione di parametri ematochimici e urinari può condurre a una sottovalutazione della condizione infettiva.

Il medico che, in presenza di sintomi urinari riferiti dal paziente, si limita a prescrivere terapia empirica senza richiedere un esame urine con urinocoltura o, peggio, non considera nemmeno l’ipotesi infettiva, omette un passaggio fondamentale nel processo diagnostico. L’esame delle urine rappresenta il primo step, rapido ed economico, che permette di rilevare leucocituria, nitriti positivi, ematuria e batteriuria. La coltura con antibiogramma, quando indicata, consente di identificare il microrganismo responsabile e impostare una terapia mirata, riducendo il rischio di resistenze. L’omissione di questi esami, o il loro ritardo, rappresenta una violazione del principio di appropriatezza diagnostica.

In ambito medico-legale, si considera colposa la condotta del sanitario che non sospetti l’infezione urinaria in soggetti a rischio, come donne in età fertile con sintomi suggestivi, anziani con alterazione dello stato mentale acuta, soggetti con pregressi episodi di IVU ricorrenti, pazienti oncologici o affetti da patologie croniche. Anche nei casi in cui i sintomi siano aspecifici – ad esempio febbricola, malessere generale, nausea, alterazione della diuresi – il medico è tenuto ad approfondire tramite anamnesi, esame obiettivo e test di laboratorio.

Il ritardo diagnostico può condurre a complicanze gravi. Un’infezione delle basse vie urinarie non riconosciuta può progredire a pielonefrite, con coinvolgimento del parenchima renale, febbre elevata, dolore lombare, leucocitosi, incremento della creatinina e, nei casi più gravi, segni di compromissione sistemica. Nei pazienti immunodepressi, oncologici o anziani, è documentata la possibilità che IVU non trattate conducano a urosepsi e shock settico, con elevata mortalità. Quando la mancata diagnosi ha determinato l’evoluzione verso queste complicanze, la responsabilità del medico è valutata in rapporto alla prevedibilità e prevenibilità dell’evento.

Anche l’omessa rivalutazione clinica del paziente costituisce elemento di colpa. Se il trattamento antibiotico empirico non determina miglioramento dopo 48-72 ore, il medico è tenuto a rivalutare la diagnosi, sospettare complicazioni, ripetere gli esami e, se necessario, modificare il trattamento. Non considerare un eventuale fallimento terapeutico, o attribuire il persistere dei sintomi a cause extra-urinarie senza escludere la patologia in corso, viola il dovere di controllo dell’evoluzione clinica.

Nel caso in cui il paziente si presenti più volte allo stesso medico riferendo disturbi urinari senza ricevere mai un’indagine specifica, oppure venga dimesso dal pronto soccorso senza esami né indicazioni terapeutiche adeguate, il comportamento sanitario può essere considerato gravemente omissivo. La giurisprudenza, in questi casi, considera il mancato riconoscimento di un quadro clinico chiaramente sintomatico come responsabilità professionale a tutti gli effetti, anche in assenza di complicanze permanenti, qualora venga dimostrato un danno temporaneo alla salute o un aggravamento evitabile.

In particolare, il concetto di “perdita di chance” è pienamente applicabile: se, a causa della mancata diagnosi tempestiva, il paziente ha perso la possibilità di una guarigione rapida, ha subito un ricovero evitabile, ha dovuto affrontare terapie più invasive o ha riportato conseguenze anatomiche o funzionali, il diritto al risarcimento sussiste anche in assenza di invalidità permanente. In ambito peritale, ciò richiede una valutazione accurata del nesso causale, della condotta sanitaria e della prognosi differenziale ipotetica in caso di corretta diagnosi.

Anche il medico di medicina generale può essere chiamato a rispondere qualora, in pazienti con segni di flogosi urinaria, non avvii un iter diagnostico adeguato o ritardi il rinvio al nefrologo, urologo o infettivologo. Lo stesso vale per i pediatri, qualora non riconoscano segni di IVU nei bambini – specie nei primi anni di vita, dove i sintomi possono essere atipici (febbre isolata, irritabilità, scarso accrescimento) – e non prescrivano esami urine tempestivi. Nei neonati e lattanti, un’infezione urinaria non trattata può causare cicatrici renali permanenti. In questi casi, la mancata diagnosi assume un significato clinico e legale ancora più rilevante.

La responsabilità può coinvolgere anche le strutture sanitarie. Se il paziente accede al pronto soccorso e viene dimesso con diagnosi generica senza esami urinari, oppure se il referto delle urine indica un’infezione ma non viene visionato o comunicato in tempo utile, si configura una responsabilità organizzativa. Lo stesso vale se, per errori nei sistemi informatici o nelle comunicazioni interne, i dati diagnostici non vengono utilizzati per impostare il trattamento, o se non viene attivato un follow-up in caso di infezioni recidivanti o resistenti.

Il medico ha il dovere di sospettare, indagare e curare l’infezione urinaria in ogni paziente con sintomi compatibili o fattori di rischio. L’aderenza alle linee guida, l’uso corretto degli esami di laboratorio, l’attenta valutazione clinica e la sorveglianza dell’evoluzione terapeutica rappresentano elementi imprescindibili della buona pratica clinica. Quando uno di questi viene a mancare, e ne deriva un danno al paziente, la responsabilità professionale si configura secondo i principi generali della colpa medica: negligenza, imprudenza o imperizia. E in ambito infettivo, l’errore di oggi può determinare la complicanza di domani.

Quali sono le normative di riferimento?

  • Legge Gelli-Bianco (Legge n. 24/2017), che disciplina la responsabilità del personale sanitario;
  • Art. 2043 Codice Civile, per danno ingiusto causato da fatto illecito;
  • Art. 2236 Codice Civile, che regola la colpa del professionista nelle attività complesse;
  • Art. 590 e 589 Codice Penale, per lesioni colpose e omicidio colposo per errore medico.

Quali sono gli esempi di risarcimento riconosciuto?

  • Paziente anziana dimessa con febbre e confusione mentale, deceduta per urosepsi: risarcimento agli eredi di 1.200.000 euro;
  • Infezione urinaria trascurata in paziente con catetere, evoluta in insufficienza renale cronica: risarcimento di 890.000 euro;
  • Giovane donna con dolore lombare non approfondito, sviluppata pielonefrite con esiti permanenti: risarcimento di 760.000 euro;
  • Ritardo di 48 ore nella diagnosi in paziente oncologico, shock settico con amputazione: risarcimento di 1.100.000 euro.

A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento?

Se tu o un tuo familiare siete stati vittime di diagnosi mancata o tardiva di infezione urinaria, è fondamentale:

  • Rivolgersi a un avvocato esperto in malasanità, con esperienza nei casi infettivologici e urologici;
  • Richiedere una perizia medico-legale specialistica, per accertare il nesso causale tra errore e danno;
  • Analizzare tutta la documentazione clinica, referti, esami omessi o ritardati, lettere di dimissione;
  • Avviare un’azione legale per ottenere il risarcimento dei danni subiti o, in caso di decesso, per i familiari superstiti.

Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità lavorano con medici legali, urologi e infettivologi forensi per offrire una tutela completa, rapida e personalizzata in tutta Italia.

Conclusione

L’infezione urinaria è una patologia comune, ma se mal gestita può avere esiti devastanti. Quando un medico non effettua i controlli previsti o sottovaluta i sintomi, il paziente ha il diritto di essere risarcito per l’errore subito.

Non esiste una medicina senza rischi, ma esiste una medicina che deve essere prudente, tempestiva e competente. Se ciò non avviene, agire è un dovere, ottenere giustizia è un diritto.

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