L’intervento di protesi d’anca è uno dei più eseguiti in ortopedia per trattare gravi forme di coxartrosi, fratture del femore, necrosi della testa femorale o displasia dell’anca. Si tratta di un’operazione generalmente efficace, in grado di ristabilire la funzionalità articolare, eliminare il dolore e migliorare la qualità della vita del paziente.

Tuttavia, quando l’impianto protesico viene eseguito in modo scorretto – ad esempio con mal posizionamento dei componenti o scelta errata dell’impianto – le conseguenze possono essere molto gravi: dolore persistente, instabilità, lussazioni ricorrenti, zoppia, dismetria degli arti, revisione chirurgica o danni permanenti.
Se queste complicanze derivano da imperizia, negligenza o imprudenza del chirurgo ortopedico, il paziente ha diritto a un risarcimento per malasanità.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali sono le cause più comuni delle complicanze da protesi d’anca mal posizionata, quando imputabili a colpa medica?
La protesi d’anca è uno degli interventi chirurgici più frequenti e importanti dell’ortopedia moderna, in grado di restituire autonomia e qualità di vita a pazienti affetti da coxartrosi avanzata, necrosi avascolare o fratture complesse del femore prossimale. Tuttavia, la riuscita dell’intervento dipende in modo critico dalla corretta scelta dell’impianto, dalla sua esatta posizione anatomica e dalla gestione del decorso post-operatorio. Una protesi anche leggermente mal posizionata può determinare complicanze invalidanti, tra cui lussazioni ricorrenti, dismetrie, usura precoce, dolore cronico e instabilità articolare. Quando l’errore non è frutto di una complicanza imprevedibile, ma di imperizia tecnica, negligenza o violazione dei protocolli, si configura una responsabilità sanitaria.
Una delle principali cause di malposizionamento è l’inadeguata pianificazione preoperatoria. Ogni paziente, prima dell’intervento, dovrebbe essere studiato tramite radiografie calibrate, TC 3D o modelli digitali, per valutare l’anatomia acetabolare, la versione del collo femorale, la lunghezza degli arti, l’eventuale displasia, la rotazione pelvica e la qualità ossea. Se questa fase viene eseguita in modo approssimativo o omessa del tutto, il chirurgo opera “a occhio”, affidandosi all’esperienza e non a dati oggettivi. Il rischio di anteversione eccessiva, inclinazione errata della coppa o disassamento del gambo femorale aumenta sensibilmente.
Durante l’intervento, la precisione millimetrica è fondamentale. La posizione della componente acetabolare deve rispettare precisi angoli di inclinazione e anteversione (di norma tra 40–45° e 15–20° rispettivamente), mentre il gambo femorale deve essere inserito con una torsione che rispetti l’anatomia individuale. Se il campo operatorio è limitato, la visibilità scarsa, o si utilizzano tecniche non aggiornate (senza navigazione o sistemi robotici), il rischio di errori angolari aumenta. La malposizione non sempre è visibile subito: può manifestarsi solo dopo settimane o mesi, con sintomi vaghi o instabilità meccanica.
Un errore tecnico frequente è l’inserimento eccessivamente profondo o superficiale del gambo femorale, con conseguente dismetria tra gli arti inferiori. Un arto più lungo o più corto può generare dolore lombare, zoppia, difficoltà nella deambulazione e compensi posturali cronici. Se il medico non verifica in sala operatoria, con test di tensione e confronto diretto tra gli arti, la lunghezza finale, il paziente può risvegliarsi con una differenza funzionale che condiziona tutta la riabilitazione. Anche pochi millimetri di errore, in soggetti sensibili, possono avere effetti devastanti.
La malposizione della protesi è anche una delle cause principali di lussazioni recidivanti. Se la coppa acetabolare è troppo inclinata o ruotata, o se il gambo femorale è in retroversione, l’instabilità può manifestarsi con movimenti quotidiani: salire in auto, sedersi, ruotarsi nel letto. Ogni lussazione richiede un ricovero, una riduzione in anestesia, e in molti casi un re-intervento. Se l’anatomia protesica non è compatibile con i movimenti funzionali dell’anca, il paziente vive con il terrore del dolore acuto e del ritorno in sala operatoria.
La scelta sbagliata della misura della protesi può generare impingement ossei o conflitti tra componenti. In pazienti giovani o con conformazioni pelviche particolari, l’utilizzo di protesi standard non adattate può determinare attrito precoce tra il colletto femorale e il bordo acetabolare, con conseguente usura, rumori articolari e limitazione funzionale. Se il chirurgo non valuta il rischio di conflitto meccanico, o se non esegue test intraoperatori per simulare l’escursione articolare, il paziente può sviluppare dolore cronico anche con RX apparentemente normali.
La mancata integrazione dell’impianto nell’osso può derivare da un errato posizionamento iniziale. Se la protesi non ha un contatto ottimale con l’osso trabecolare, o se viene inserita con inclinazioni non fisiologiche, può verificarsi un micromovimento continuo che impedisce l’osteointegrazione. Questo porta a mobilizzazione precoce, necessità di revisione, e a un dolore costante che viene spesso erroneamente attribuito a “infiammazione residua”. Ma un impianto che non è stabile non smette di fare male.
L’uso improprio del cemento osseo in protesi cementate è un altro fattore di rischio. Se il cemento viene applicato in modo irregolare, o se la pressurizzazione è scarsa, l’ancoraggio può risultare debole o asimmetrico. Questo può portare a fratture intraoperatorie non riconosciute, o a instabilità precoce. In alcuni casi, il materiale può extravasare nei tessuti molli, causando necrosi, infezioni o compressione nervosa. La tecnica chirurgica deve seguire rigorosamente le fasi raccomandate.
La compressione del nervo sciatico o femorale, causata da un errato orientamento della protesi, è una complicanza temibile. Se i retrattori sono posizionati male o se la componente femorale sporge troppo posteriormente, può verificarsi una lesione acuta o una compressione subacuta del nervo sciatico, con perdita di forza, dolore irradiato o piede cadente. Un esame neurologico incompleto nel post-operatorio può ritardare la diagnosi e aggravare il danno. Se la compressione persiste per più di 24-48 ore, il recupero diventa incerto.
L’inadeguato trattamento post-operatorio e la sottovalutazione del dolore sono errori secondari, ma non meno gravi. Se il paziente lamenta dolore, difficoltà a caricare, sensazione di instabilità, rumori articolari o disallineamento visibile, deve essere sottoposto subito a imaging mirato. RX con proiezioni mirate, TC, eventualmente anche esami in carico, sono strumenti essenziali. Rimandare gli accertamenti con la giustificazione del “normale decorso” può far perdere il momento giusto per revisionare l’impianto.
Anche la comunicazione carente tra chirurgo, anestesista e riabilitatore può contribuire al fallimento. Il paziente fragile, osteoporotico o con fratture precedenti, se non viene gestito in modo integrato, può sviluppare complicanze meccaniche legate non all’atto chirurgico in sé, ma al modo in cui è stato seguito. Una protesi ben posizionata, se sovraccaricata troppo presto o mobilizzata in modo scorretto, può lussarsi o spostarsi.
Infine, il mancato consenso informato completo configura una violazione etica e medico-legale. Il paziente deve essere informato dei rischi di malposizionamento, dismetria, necessità di revisione, limiti funzionali e possibili complicanze neurologiche. Se non viene fornita un’informazione chiara, comprensibile e documentata, anche una complicanza imprevedibile può diventare oggetto di responsabilità professionale.
In conclusione, una protesi d’anca mal posizionata non è solo una questione di millimetri: è una questione di precisione, conoscenza, comunicazione e rispetto delle linee guida. Il paziente che si affida a un chirurgo ortopedico per tornare a camminare, ha diritto a un impianto stabile, allineato, testato e seguito. L’errore può essere invisibile al bisturi, ma evidente nella vita quotidiana di chi, dopo l’intervento, zoppica, soffre o torna in sala operatoria.
Ogni componente mal orientata è un passo sbagliato nella fiducia tra medico e paziente. Ogni dismetria è un disequilibrio anche umano. Ogni dolore dopo una protesi è un campanello che non va mai ignorato. Perché un’anca nuova è una promessa di libertà. E se mal posizionata, può diventare una prigione meccanica da cui solo un nuovo intervento — o la verità medico-legale — possono liberare.
Quando si configura la responsabilità medica per protesi d’anca mal posizionata
La responsabilità medica per protesi d’anca mal posizionata si configura quando l’intervento chirurgico viene eseguito in modo tecnicamente scorretto, determinando un allineamento anomalo dei componenti protesici, un’instabilità articolare, una differente lunghezza degli arti inferiori o una mobilità compromessa, con conseguente dolore cronico, zoppia, lussazioni recidivanti, revisione chirurgica o invalidità permanente. L’impianto di una protesi d’anca è una procedura codificata, con standard tecnici precisi, margini di tolleranza millimetrici e strumenti intraoperatori altamente specializzati. Quando la posizione della protesi è fuori asse, non si tratta di un evento imponderabile, ma di un errore misurabile.
La chirurgia protesica dell’anca richiede una pianificazione preoperatoria accurata. Radiografie sotto carico, TAC o ricostruzioni tridimensionali consentono di valutare l’orientamento del bacino, la morfologia del femore, la rotazione acetabolare e l’altezza del centro di rotazione. Se il chirurgo non effettua questi studi o non li utilizza per pianificare correttamente il taglio osseo e l’allineamento dei componenti, il rischio di malposizionamento è già presente prima dell’intervento.
Durante l’operazione, il posizionamento corretto della coppa acetabolare e dello stelo femorale deve rispettare gradi di inclinazione e antiversione ben definiti. Una coppa troppo verticale o ruotata può favorire l’instabilità e l’usura precoce; uno stelo mal orientato può alterare la biomeccanica articolare e provocare dolore o mobilità limitata. Se il chirurgo non utilizza guide meccaniche, sistemi di navigazione, livelli di riferimento anatomici o strumenti computer-assistiti laddove disponibili, la precisione dell’impianto non è garantita e la condotta può essere ritenuta imprudente.
Il danno più frequente da protesi mal posizionata è l’instabilità con lussazioni ricorrenti. Il paziente può riferire episodi di “scatto” o cedimento dell’anca durante i movimenti quotidiani, necessitando di ricoveri ripetuti per riposizionamento. In altri casi, emerge una dismetria tra gli arti inferiori, con differenze anche di 2 o 3 cm, che causano alterazioni posturali, lombalgia secondaria e andatura claudicante. Quando la lunghezza degli arti viene alterata per errore tecnico e senza adeguato bilanciamento, la responsabilità è pienamente configurabile.
L’uso scorretto di protesi non adatte alla conformazione del paziente è un altro elemento di responsabilità. Se viene impiantata una protesi standard in un paziente con deformità congenite, osteoporosi avanzata o alterazioni strutturali complesse, senza ricorrere a componenti modulari, offset personalizzati o tecniche di ricostruzione ossea, il fallimento dell’intervento non è una complicanza, ma il prevedibile esito di una scelta inadeguata.
Il paziente ha diritto a un’informazione completa, anche sulle opzioni protesiche disponibili, sul grado di rischio e sulla possibilità di posizionamento robotico o navigato. Se il consenso informato non contiene alcuna menzione di questi elementi, o se il paziente non è stato messo nelle condizioni di scegliere consapevolmente tra soluzioni differenti, il vizio informativo si aggiunge al danno clinico, amplificandone il profilo risarcitorio.
Anche nel post-operatorio, la responsabilità può emergere se i sintomi del malposizionamento vengono ignorati. Il paziente che, nei giorni o nelle settimane successive all’intervento, riferisce dolore anomalo, difficoltà a camminare, sensazione di instabilità o differenze di lunghezza delle gambe, deve essere rivalutato con esami radiologici approfonditi. Se invece viene rassicurato senza controlli oggettivi o dimesso senza aver valutato l’allineamento protesico, il ritardo nella diagnosi del malposizionamento aggrava il danno e rafforza la responsabilità del medico.
Le revisioni protesiche eseguite a distanza di pochi mesi dall’intervento iniziale sono spesso la prova più evidente di un errore tecnico. Le complicanze come lussazioni ripetute, mobilizzazione precoce dell’impianto, fratture periprotesiche o dolore cronico invalidante sono tutte condizioni che, se connesse a un’errata posizione della protesi, configurano un fallimento chirurgico. La necessità di un secondo intervento non è un’evenienza casuale: è la conseguenza clinica di una prima chirurgia mal eseguita.
Dal punto di vista medico-legale, la responsabilità si valuta attraverso una perizia tecnica che analizzi la documentazione preoperatoria, i referti intraoperatori, le immagini radiologiche post-intervento e l’evoluzione clinica del paziente. Se si rileva un’angolazione non conforme dei componenti, una dismetria non giustificata o un’usura precoce dell’impianto, la colpa professionale può essere dimostrata per imperizia nella fase chirurgica o negligenza nella pianificazione.
Il danno biologico può essere rilevante: dolore cronico, deficit funzionale, disabilità motoria, reinterventi chirurgici, lunghi percorsi riabilitativi, danni psicologici e limitazioni lavorative. Il risarcimento deve tenere conto anche del danno esistenziale e della perdita della qualità di vita. Quando un paziente si affida a un intervento per ritrovare mobilità e ne esce con una nuova invalidità, la responsabilità è nella sala operatoria, non nell’impianto.
L’intervento di protesi d’anca è uno degli atti chirurgici più diffusi, con milioni di esecuzioni all’anno e tassi di successo molto elevati. Per questo, l’errore non può essere giustificato come una complicanza statistica. Se la protesi è fuori asse, se il dolore non passa, se la camminata non torna mai normale, il fallimento è tecnico. E dove c’è un fallimento tecnico evitabile, c’è responsabilità.
Quando si configura la responsabilità medica?
La responsabilità del chirurgo o della struttura sanitaria si configura quando:
- L’intervento viene eseguito con imperizia tecnica, violando le linee guida chirurgiche;
- Viene scelta una protesi inadeguata rispetto alla morfologia del paziente;
- Il paziente non viene correttamente informato sui rischi e sulle alternative terapeutiche (consenso non valido);
- Viene ignorata una complicanza intraoperatoria evidente (come la frattura del femore o la lussazione della componente);
- Non viene eseguito un corretto controllo radiologico post-operatorio;
- L’errore di posizionamento non viene riconosciuto nei mesi successivi, nonostante i sintomi evidenti.
Quali sono le normative di riferimento?
- Legge Gelli-Bianco (Legge n. 24/2017), che disciplina la responsabilità sanitaria e la sicurezza delle cure;
- Art. 2043 Codice Civile, per danno ingiusto da fatto illecito;
- Art. 1218 e 1228 Codice Civile, per responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria;
- Art. 2236 Codice Civile, per colpa professionale in ambiti tecnico-specialistici;
- Art. 590 Codice Penale, per lesioni personali colpose da errore sanitario.
Quali sono gli esempi di risarcimento riconosciuto?
- Paziente con protesi mal allineata, necessaria revisione chirurgica e danno funzionale permanente: risarcimento di 1.300.000 euro;
- Dismetria di oltre 2 cm non corretta, con conseguente instabilità vertebrale e dolori cronici: risarcimento di 1.100.000 euro;
- Lussazioni recidivanti per errore nella rotazione dello stelo femorale: risarcimento di 1.200.000 euro;
- Protesi cementata male, con distacco precoce e necessità di re-intervento dopo 8 mesi: risarcimento di 980.000 euro.
A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento?
In caso di protesi d’anca mal posizionata, è fondamentale:
- Rivolgersi a un avvocato specializzato in malasanità ortopedica;
- Richiedere una perizia medico-legale ortopedica, con analisi di radiografie pre e post-operatorie, cartella clinica, referti e referti di controllo;
- Dimostrare il nesso causale tra l’errore chirurgico e il danno subito;
- Avviare un’azione legale per ottenere il giusto risarcimento per il danno biologico, morale, patrimoniale e da invalidità.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità operano con un team di ortopedici forensi, radiologi legali e periti di parte, per garantire una difesa solida, specializzata e orientata al risultato.
Conclusione
La protesi d’anca rappresenta una soluzione efficace solo se eseguita con precisione e secondo standard elevati. Quando un errore chirurgico compromette l’intervento, il paziente non deve subire in silenzio.
Se hai subito danni dopo un impianto protesico, chiedi la verità, la giustizia e il risarcimento che ti spettano. La legge è al tuo fianco.
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