Mancata Rilevazione Di Un Infarto In Atto E Risarcimento Danni

L’infarto miocardico acuto è un’emergenza medica che richiede diagnosi immediata e trattamento tempestivo. I primi 60-90 minuti – la cosiddetta “golden hour” – sono fondamentali per salvare il cuore e la vita del paziente. Un errore nel riconoscere i sintomi o nel leggere gli esami può comportare conseguenze gravissime: danni cardiaci irreversibili, invalidità permanente o morte.

Quando un infarto in corso non viene identificato, oppure viene sottovalutato come disturbo gastrico, ansia o affaticamento, si configura un errore medico potenzialmente fatale. In questi casi, il paziente – o i familiari in caso di decesso – hanno diritto a un risarcimento per malasanità.

Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.

In quali casi si verifica una mancata diagnosi di infarto?

Gli errori più comuni includono:

  • Dolore toracico scambiato per reflusso o ansia, senza ulteriori accertamenti;
  • ECG non eseguito o interpretato in modo errato;
  • Enzimi cardiaci (troponina, CPK) non richiesti o non valutati correttamente;
  • Pazienti giovani o donne sottovalutati perché “a basso rischio”;
  • Rimando a casa dal pronto soccorso con diagnosi errata;
  • Sintomi atipici (nausea, dolore alla mandibola, braccio sinistro, affaticamento improvviso) ignorati;
  • Mancato consulto cardiologico urgente o ritardo nella somministrazione della terapia salvavita (aspirina, nitroglicerina, trombolisi, angioplastica).

Quali sono le cause più comuni della mancata rilevazione di un infarto in atto, quando imputabile a colpa medica?

L’infarto miocardico acuto rappresenta un’emergenza clinica che richiede un riconoscimento immediato e un trattamento tempestivo per ridurre la mortalità e le complicanze a lungo termine. La diagnosi precoce è la chiave per attivare la riperfusione coronarica, che può salvare il muscolo cardiaco e, con esso, la vita del paziente. Tuttavia, nonostante la disponibilità di strumenti diagnostici affidabili come l’elettrocardiogramma (ECG), i biomarcatori e l’ecocardiografia, ogni anno si verificano numerosi casi di infarto non diagnosticato o diagnosticato troppo tardi. Quando ciò accade per una condotta medica inadeguata, si configura una colpa grave, con conseguenze spesso irreparabili.

Una delle cause più frequenti è la sottovalutazione dei sintomi atipici. L’infarto non si presenta sempre con il classico dolore toracico costrittivo irradiato al braccio sinistro. Nei pazienti anziani, diabetici, nelle donne e nei soggetti con patologie neurologiche, i sintomi possono essere vaghi, come astenia, nausea, dispnea, ansia, epigastralgia, dolore al collo o semplicemente malessere generale. Se il medico si affida a un modello sintomatologico “standard” e non considera l’ampio spettro clinico dell’infarto, può facilmente escludere il sospetto cardiaco in modo prematuro.

Un altro errore diagnostico ricorrente è la mancata esecuzione tempestiva dell’elettrocardiogramma. Le linee guida internazionali raccomandano che ogni paziente con sospetto dolore toracico venga sottoposto a ECG entro 10 minuti dall’arrivo in pronto soccorso. Tuttavia, in alcuni casi l’ECG viene eseguito in ritardo, dopo ore, o non viene ripetuto nei pazienti con sintomi persistenti ma inizialmente normali. L’infarto, infatti, può avere un esordio silente sull’ECG e manifestarsi solo dopo un certo lasso di tempo. Se il medico non ripete l’esame o non lo interpreta nel contesto clinico, l’evento ischemico può essere completamente trascurato.

Anche l’interpretazione errata dell’ECG è una fonte significativa di errori. L’elettrocardiogramma non sempre mostra sopraslivellamenti del tratto ST evidenti. In alcuni infarti, soprattutto posteriori, laterali o subendocardici, le alterazioni possono essere minime, aspecifiche o interpretate come “normali varianti”. Se il medico non ha un’adeguata preparazione o esperienza nella lettura degli ECG complessi, o se non confronta il tracciato con uno precedente, può non riconoscere i segni di ischemia acuta.

La mancata misurazione o il ritardo nel dosaggio dei biomarcatori cardiaci è un altro punto critico. La troponina è il marker più sensibile e specifico per la necrosi miocardica, ma la sua interpretazione richiede attenzione. Se il dosaggio non viene richiesto, o se viene effettuato troppo precocemente senza follow-up a distanza di ore, il medico può erroneamente concludere che non vi sia danno miocardico. In più, la troponina può essere elevata anche per cause non ischemiche, come sepsi o insufficienza renale. Se il medico si limita a leggere il dato numerico senza inquadrarlo nel contesto clinico ed elettrocardiografico, rischia di escludere un infarto che è invece in corso.

Un errore strutturale è rappresentato dalla frammentazione dell’assistenza nei pronto soccorso affollati. In contesti caotici, il paziente può essere valutato da diversi medici, spostato tra osservazione e triage, o trattenuto in attesa di esami senza che nessuno raccolga una visione completa del quadro clinico. Se nessuno si assume la piena responsabilità del caso o se non viene attivato un protocollo specifico per dolore toracico, l’infarto può passare inosservato anche per ore.

La superficialità nell’anamnesi è un altro elemento chiave. Alcuni pazienti, soprattutto quelli già affetti da patologie croniche, riferiscono dolori toracici frequenti o dispnea da sforzo. Se il medico archivia i sintomi come “noti” o “già presenti” senza eseguire i dovuti controlli, può lasciar evolvere un infarto acuto sotto la falsa sicurezza della cronicità.

Anche l’età del paziente può rappresentare un fattore distorsivo. Nei pazienti giovani, il rischio cardiovascolare viene spesso ritenuto basso, e sintomi compatibili con ischemia miocardica vengono attribuiti ad ansia, attacchi di panico, reflusso gastroesofageo o problemi muscolari. Ma l’infarto può colpire anche soggetti di 30 o 40 anni, specialmente se fumatori, dislipidemici o con familiarità. Se il medico non considera questa possibilità, il tempo diagnostico si allunga oltre il limite utile per intervenire.

L’eccessivo affidamento a esami strumentali non cardiologici può contribuire al ritardo. In alcuni casi, i pazienti vengono sottoposti a radiografie toraciche, esami ematochimici generici, TAC per escludere embolie o dissezioni, ma senza un’adeguata valutazione cardiologica. Se l’attenzione diagnostica si disperde in ipotesi alternative senza avere escluso l’infarto, si commette un grave errore metodologico.

La gestione inadeguata del rischio residuo è un altro aspetto importante. In alcuni casi, anche dopo un primo ECG e troponina negativi, il paziente continua a presentare sintomi compatibili. Se il medico non decide per il ricovero in osservazione breve o per un monitoraggio con seriali ECG e troponine, ma lo dimette con una diagnosi generica di “dolore aspecifico”, lascia evolvere l’infarto a domicilio, privando il paziente della possibilità di una rivascolarizzazione tempestiva.

Le conseguenze cliniche della mancata rilevazione di un infarto sono estremamente gravi. La necrosi miocardica progredisce con il passare dei minuti, compromettendo la funzione contrattile del cuore e predisponendo ad aritmie letali, shock cardiogeno e scompenso. Nei casi in cui il trattamento con angioplastica o trombolisi viene effettuato oltre la “golden hour”, il danno può essere irreversibile. Nei casi peggiori, l’assenza di trattamento porta direttamente alla morte improvvisa.

Dal punto di vista medico-legale, la responsabilità si configura quando il medico ha avuto la possibilità, ma non ha colto i segnali dell’infarto in corso. Non è necessario che l’errore sia eclatante: basta che sia documentabile una condotta omissiva, una sottovalutazione, o una mancata attivazione delle procedure previste dalle linee guida. Se un paziente con dolore toracico non riceve un ECG entro 10 minuti, non viene monitorato o non viene trattenuto in osservazione quando i sintomi persistono, la responsabilità è piena.

Anche l’assenza di documentazione chiara aggrava la posizione del medico. Se non vi sono note cliniche che giustificano le scelte diagnostiche, se non viene riportata l’anamnesi, se non si trova traccia dell’interpretazione dell’ECG o della valutazione del rischio ischemico, si presume che il paziente non sia stato valutato adeguatamente. In medicina, ciò che non è scritto non è esistito.

In conclusione, la mancata rilevazione di un infarto in atto è un errore grave perché spesso letale, ma soprattutto evitabile. I segni ci sono, i mezzi diagnostici esistono, i protocolli sono noti. Serve solo applicarli. Con metodo, attenzione e responsabilità.

Ogni dolore toracico è una possibilità da non sprecare. Ogni ECG saltato è un’occasione persa. Ogni paziente dimesso troppo presto è una vita che forse non tornerà. L’infarto non aspetta. E la medicina non può permettersi di guardare altrove.

Quando si configura la responsabilità medica per mancata rilevazione di un infarto in atto

La responsabilità medica per mancata rilevazione di un infarto in atto si configura ogni volta che un paziente con sintomi compatibili con una sindrome coronarica acuta non viene correttamente valutato, non viene sottoposto agli esami necessari o non riceve il trattamento urgente che la condizione richiede, con conseguente peggioramento del quadro clinico, danno miocardico irreversibile o morte. L’infarto miocardico acuto è una delle principali cause di mortalità al mondo, ma anche una delle più riconoscibili e trattabili, a condizione che venga identificato subito. Quando il cuore chiede aiuto e la medicina non ascolta, la responsabilità non è solo clinica: è morale.

Il primo errore, spesso sottile ma devastante, è il mancato riconoscimento dei sintomi. Il paziente può presentarsi al pronto soccorso con dolore toracico, senso di oppressione, irradiazione al braccio sinistro, nausea, sudorazione fredda, dispnea. Ma in alcuni casi, soprattutto nelle donne, negli anziani e nei diabetici, il dolore può essere atipico o addirittura assente. Se il medico si limita a una valutazione superficiale, attribuisce i sintomi all’ansia o a una gastrite, e non dispone un elettrocardiogramma immediato, il tempo perso si trasforma in danno miocardico.

L’elettrocardiogramma a 12 derivazioni è l’esame cardine nella diagnosi dell’infarto. Deve essere eseguito entro 10 minuti dall’ingresso in triage per ogni paziente con dolore toracico sospetto. Se l’ECG non viene fatto, oppure viene eseguito ma non interpretato correttamente — come accade nei casi di infarti posteriori, con alterazioni più difficili da individuare — l’occasione diagnostica viene mancata proprio nel momento più critico. Una sottovalutazione dell’ECG equivale, nei fatti, a una diagnosi omessa.

Anche il dosaggio dei biomarcatori cardiaci, in particolare della troponina, è essenziale. Ma la troponina ha un tempo di latenza: nelle prime due ore dall’inizio dei sintomi può risultare ancora normale. Se il medico, di fronte a una troponina negativa, esclude con leggerezza l’infarto senza programmare un secondo dosaggio o un ricovero in osservazione breve, l’infarto può evolvere in modo silente, fino a manifestarsi con un arresto cardiaco improvviso.

Un altro aspetto cruciale è il tempo di intervento. L’infarto STEMI, cioè con sopraslivellamento del tratto ST all’ECG, richiede una rivascolarizzazione urgente con angioplastica primaria, da eseguire entro 90 minuti dal primo contatto medico. Se il paziente viene lasciato in attesa, se l’attivazione della sala di emodinamica viene ritardata o se viene erroneamente indirizzato in reparto anziché in UTIC, ogni minuto perso aumenta la necrosi del tessuto cardiaco. E ogni necrosi è un pezzo di cuore che non tornerà a battere normalmente.

La responsabilità si estende anche ai contesti extraospedalieri. Se un medico del 118, di fronte a un paziente con dolore toracico e segni vaghi, non esegue l’ECG portatile o non attiva l’invio diretto in emodinamica, la catena dell’emergenza si spezza sul nascere. L’infarto non aspetta: e la medicina d’urgenza deve saper riconoscere il silenzio di un cuore che sta cedendo.

Anche in fase post-acuta, la mancata rilevazione di segni indiretti può costare caro. Un paziente con episodi ripetuti di affaticamento, calo pressorio, dispnea da sforzo o aritmie, se non viene sottoposto a monitoraggio cardiologico, può avere già avuto un infarto misconosciuto. Le onde Q patologiche all’ECG, le alterazioni della contrattilità segmentaria all’ecocardio o le cicatrici miocardiche alla risonanza possono testimoniare un evento ischemico passato. Ma quando la diagnosi arriva tardi, anche la responsabilità è già scritta.

Il consenso informato non è uno scudo. Nessun paziente accetta consapevolmente di essere dimesso senza che siano stati esclusi tutti i rischi maggiori compatibili con i sintomi. Se il medico non spiega che, in assenza di una diagnosi certa, è necessario il ricovero in osservazione o l’esecuzione di esami seriati, il paziente non è messo in condizione di decidere: è lasciato solo con un cuore malato.

Le conseguenze della mancata diagnosi di infarto sono spesso irreparabili: scompenso cardiaco cronico, ridotta frazione di eiezione, aritmie ventricolari maligne, embolie, necessità di defibrillatore impiantabile o trapianto cardiaco. Nei casi più gravi, la morte sopraggiunge prima ancora che qualcuno si accorga di cosa stava succedendo. E quando si scopre, dopo, che i segnali c’erano tutti, il danno si somma alla rabbia per l’occasione perduta.

Dal punto di vista medico-legale, la responsabilità si valuta in base al rispetto delle linee guida internazionali: tempi di esecuzione dell’ECG, tempi di dosaggio della troponina, attivazione del codice infarto, gestione della terapia antiaggregante e accesso alla rivascolarizzazione. Se la documentazione mostra che i protocolli non sono stati seguiti, la colpa per negligenza o imperizia è difficilmente contestabile.

Le perizie esaminano la cronologia dei sintomi, i tempi di triage, i referti strumentali, le azioni del personale medico e infermieristico, la qualità dell’informazione data al paziente e le eventuali omissioni. Se si dimostra che un medico diligente, in condizioni simili, avrebbe fatto diagnosi tempestiva e avviato la terapia corretta, il nesso causale è pienamente configurato.

L’infarto in atto è una corsa contro il tempo. Ogni minuto può salvare o compromettere il futuro del paziente. E quando la medicina perde quella corsa non per limiti della scienza, ma per errori umani, superficialità, disorganizzazione o ritardi evitabili, non si può parlare di fatalità. Si deve parlare di responsabilità. Perché il cuore, quando soffre, lancia segnali chiari. E chi ha scelto di proteggerlo non può permettersi di ignorarli.

Quali sono le normative di riferimento?

  • Legge Gelli-Bianco (Legge n. 24/2017), sulla sicurezza delle cure e la responsabilità sanitaria;
  • Art. 2043 Codice Civile, per danno ingiusto da fatto illecito;
  • Art. 1218 e 1228 Codice Civile, per responsabilità contrattuale di medici e strutture;
  • Art. 2236 Codice Civile, per prestazioni medico-specialistiche complesse;
  • Art. 590 e 589 Codice Penale, per lesioni colpose o omicidio colposo da errore medico.

Quali sono gli esempi di risarcimento riconosciuto?

  • Uomo di 52 anni dimesso dal pronto soccorso con diagnosi di gastrite, deceduto 3 ore dopo per infarto: risarcimento agli eredi di 1.800.000 euro;
  • Donna di 47 anni con dolore al torace e nausea, infarto non riconosciuto: invalidità permanente e risarcimento di 1.400.000 euro;
  • ECG con alterazioni ignorate, paziente sopravvissuto con insufficienza cardiaca cronica: risarcimento di 1.250.000 euro;
  • Ritardo nell’angioplastica primaria oltre 4 ore dall’accesso in ospedale: danno biologico permanente e risarcimento di 1.600.000 euro.

A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento?

In caso di infarto non riconosciuto, è fondamentale:

  • Contattare un avvocato specializzato in responsabilità medica in ambito cardiologico;
  • Richiedere una perizia medico-legale con il supporto di cardiologi, medici d’urgenza e legali forensi;
  • Raccogliere tutta la documentazione: cartella clinica, ECG, referti di laboratorio, consulenze, terapie, lettere di dimissione o necroscopiche;
  • Dimostrare il nesso causale tra l’omessa diagnosi e il danno subito (invalidità o decesso);
  • Avviare una procedura legale per ottenere il giusto risarcimento (biologico, patrimoniale, morale ed esistenziale).

Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità collaborano con un team di medici legali, cardiologi e periti di parte, garantendo un’analisi tecnica approfondita e una difesa completa.

Conclusione

Un infarto può essere salvato con pochi minuti di attenzione, ma può diventare una tragedia se sottovalutato. Quando l’errore è evitabile, il diritto alla salute è violato e la legge tutela il paziente e i suoi cari.

Se pensi che tu o un tuo familiare abbiate subito un danno per infarto non riconosciuto o mal gestito, non restare nel dubbio: agisci subito. La verità medica e la giustizia civile sono un tuo diritto.

Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici:

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