In ambito sanitario, la comunicazione tempestiva dei risultati critici di laboratorio è una procedura essenziale per garantire la sicurezza del paziente. I risultati critici – come valori ematici alterati, indici infettivi fuori norma o segni evidenti di patologie acute – richiedono una risposta clinica immediata. Quando tali valori non vengono comunicati prontamente al medico curante o al reparto assistenziale, il rischio di peggioramento clinico, eventi avversi o morte aumenta in modo esponenziale.
La mancata comunicazione dei risultati critici rappresenta una violazione grave dei protocolli clinici, spesso dovuta a disorganizzazione interna, mancanza di tracciabilità nei flussi informativi, errori nel sistema informatico o sottovalutazione da parte del personale di laboratorio. In molti casi, il referto viene caricato nel sistema informatico senza un alert adeguato, oppure rimane non visionato per ore o giorni.

Quando il paziente subisce un danno per mancato intervento su un valore critico non comunicato, si configura una responsabilità sanitaria diretta. Il risarcimento può coprire il danno biologico, morale, esistenziale e le eventuali perdite patrimoniali o da interruzione della terapia.
In questo articolo approfondiremo le cause più frequenti di errore nella gestione dei risultati critici, i protocolli previsti, le responsabilità legali secondo la normativa vigente, i casi concreti di risarcimento ottenuti e le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità, tra i massimi esperti in danni da omissione clinica.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali sono le cause più frequenti del mancato inoltro o della mancata comunicazione dei risultati critici di laboratorio?
Nel cuore di ogni ospedale, tra il via vai dei pazienti, le urgenze quotidiane e le diagnosi da formulare, c’è un settore silenzioso ma cruciale: il laboratorio analisi. È lì che si producono informazioni fondamentali per il trattamento dei pazienti, ed è lì che spesso si nasconde uno degli errori più sottovalutati e pericolosi della medicina moderna: la mancata comunicazione tempestiva dei risultati critici di laboratorio. Non si tratta semplicemente di ritardi burocratici o di distrazioni: parliamo di situazioni in cui un dato alterato in modo potenzialmente letale – come una potassiemia incompatibile con la vita, un’emoglobina da shock, un INR fuori scala, una glicemia in coma iperosmolare – non viene segnalato in tempo utile al medico curante. Il risultato è un trattamento mancato o in ritardo, e talvolta, un danno irreversibile per il paziente.
Il primo elemento che contribuisce a questo errore è l’assenza o la scarsa chiarezza dei protocolli interni. Ogni struttura sanitaria dovrebbe avere una lista aggiornata di valori critici, stabilita in base a standard internazionali e condivisa tra laboratorio e reparto. Questa lista dovrebbe indicare non solo quali valori richiedono comunicazione urgente, ma anche a chi trasmetterli, con che mezzo, entro quale tempo massimo, e con quale conferma di avvenuta ricezione. Tuttavia, in molte realtà ospedaliere italiane, questi protocolli non sono formalizzati, non vengono aggiornati o, peggio ancora, sono ignorati. Ciò che dovrebbe essere un automatismo organizzativo si trasforma in una responsabilità individuale e arbitraria, lasciata alla sensibilità del singolo tecnico o biologo.
Anche laddove esistano delle procedure scritte, spesso manca l’integrazione tra i diversi sistemi informativi. I laboratori lavorano con software gestionali separati da quelli dei reparti, e la trasmissione dei dati avviene su canali non sincronizzati: cartelle cliniche elettroniche scollegate, risultati visualizzabili solo da determinate postazioni, fax ancora in uso in alcuni ambulatori, telefonate registrate manualmente. In questo scenario, anche un semplice valore di sodio sotto i 120 mEq/L può rimanere “invisibile” per ore. Se il medico non accede al sistema, se non riceve la segnalazione diretta, se il dato critico viene “caricato a sistema” ma non verbalizzato, quel paziente resta a rischio, pur avendo già il suo pericolo stampato nero su bianco.
Il fattore umano, in questo contesto, gioca un ruolo decisivo. Molti laboratori sono sotto organico. I tecnici lavorano su turni massacranti, il volume degli esami è spesso molto elevato e non sempre c’è un operatore dedicato alla gestione attiva delle segnalazioni urgenti. Il compito di avvisare il reparto viene affidato “a chi ha tempo”, oppure rimandato. Non è raro che, nelle ore serali o nei fine settimana, la comunicazione venga registrata ma non inoltrata direttamente al medico. In altri casi, si tenta di contattare il reparto senza ricevere risposta. Si lascia un messaggio alla segreteria, si invia una nota interna o un promemoria, ma nessuno verifica che la comunicazione sia stata effettivamente ricevuta e compresa. In medicina d’urgenza, questa distanza tra il dato prodotto e il dato gestito è un margine di rischio inaccettabile.
Non vanno poi dimenticati i problemi legati alla carenza di responsabilità formale. In alcune strutture, non è chiaro chi abbia il dovere di notificare i risultati critici. Il biologo? Il tecnico? L’infermiere di laboratorio? Il direttore sanitario? Se manca una filiera precisa e tracciabile, la responsabilità si dissolve. Tutti “dovevano farlo”, nessuno lo ha fatto. La comunicazione resta nel limbo tra il “dovevamo chiamare” e il “pensavamo lo avesse già visto”. Questo scenario è ancora più pericoloso nei casi in cui l’analisi è stata richiesta da più reparti (come avviene per pazienti in transito tra pronto soccorso, radiologia, sala operatoria), o quando si tratta di pazienti ambulatoriali, per i quali nessuno ha il compito esplicito di monitorare in tempo reale l’uscita degli esami.
Ci sono poi gli errori legati alla banalizzazione della frequenza. Alcuni parametri risultano alterati in molti pazienti – si pensi al sodio basso negli anziani, o alla creatinina elevata nei nefropatici cronici – e per questo motivo finiscono per essere sottovalutati anche quando raggiungono livelli pericolosi. È un errore di abitudine: se un valore critico è “già noto”, si tende a non comunicarlo perché “è il solito”. Ma non è sempre il solito. Un potassio da 6,9 in un paziente noto iperkaliemico è comunque un’urgenza. Un INR da 9 in un paziente anticoagulato è comunque un rischio emorragico. La familiarità con la criticità non ne riduce la pericolosità.
Nel caso degli esami microbiologici, l’errore assume contorni ancora più insidiosi. Le emocolture positive, ad esempio, richiedono comunicazione immediata, identificazione del germe, e sensibilità agli antibiotici. Invece, capita spesso che il laboratorio comunichi l’esito solo dopo giorni, oppure solo al medico curante senza informare il reparto di degenza, o peggio, inserendo il dato nel sistema informatico senza avviso. Nel frattempo, il paziente resta in terapia empirica, spesso inappropriata, con un’infezione che progredisce. Quando si scopre l’errore, è tardi. La sepsi si è trasformata in shock settico. In ambito infettivologico, il ritardo nella comunicazione del laboratorio può costare ore decisive, e ore decisive possono fare la differenza tra vita e morte.
Un altro aspetto critico è rappresentato dai pazienti dimessi prima del risultato. Questo accade frequentemente in pronto soccorso: si richiede un emocromo o una urinocoltura, si dimette il paziente con terapia empirica, ma poi l’esito conferma un’infezione resistente o un valore ematico gravemente alterato. Se non esiste un sistema automatico di richiamata, se nessuno si assume l’onere di ricontattare il paziente, l’informazione resta nel database, ma non arriva mai dove serve: a chi deve intervenire. I pazienti, ovviamente, danno per scontato che “se non mi hanno richiamato, andava tutto bene.” Questo vuoto comunicativo è pericoloso quanto una diagnosi sbagliata. Eppure, molti sistemi ospedalieri non prevedono una filiera attiva di allerta post-dimissione.
Sul piano medico-legale, la mancata comunicazione di un valore critico è una delle situazioni più difficili da difendere. Non si tratta di un errore di giudizio, ma di un errore di processo. Il dato c’era, era disponibile, era allarmante. Ma non è stato trasmesso. In questi casi, la giurisprudenza è molto severa: se si dimostra che la mancata trasmissione del risultato ha causato un ritardo nel trattamento e un danno conseguente, la responsabilità dell’ente sanitario è pressoché automatica. Il paziente non può essere lasciato nell’ignoranza di un pericolo imminente solo perché “nessuno ha letto il referto”.
In conclusione, non comunicare i risultati critici di laboratorio non è un errore accidentale: è un fallimento sistemico. Un fallimento organizzativo, informativo, culturale. È il segno di una medicina che produce dati ma non li governa, che rileva ma non reagisce, che diagnostica ma non cura. Eppure, le soluzioni sono a portata di mano: implementare protocolli standard, integrare i sistemi informatici, formare il personale, nominare responsabili specifici, creare alert automatici, attivare percorsi di richiamata. Non servono miracoli tecnologici, ma una visione chiara della sicurezza del paziente come priorità assoluta. Perché ogni dato critico è una richiesta d’aiuto che il paziente non può leggere, ma il sistema sì. E ignorarla non è solo un errore: è un tradimento.
Quando si configura la responsabilità medica per la mancata comunicazione dei risultati critici di laboratorio?
Nel sistema sanitario moderno, la tempestività e l’accuratezza nella trasmissione delle informazioni cliniche sono elementi fondamentali per garantire la sicurezza del paziente. Tra le situazioni più delicate, figura la mancata comunicazione di risultati critici di laboratorio, ovvero quei valori ematochimici, microbiologici o tossicologici che indicano una condizione potenzialmente letale o che necessita di un intervento immediato. Se tali risultati non vengono trasmessi tempestivamente al medico curante o non vengono presi in carico in modo appropriato, le conseguenze per il paziente possono essere gravi o irreversibili.
Un risultato critico di laboratorio è un dato che, per i suoi valori estremi o per la presenza di elementi patologici (es. positività a un agente infettivo a rischio, valori ematici incompatibili con la vita, gravi alterazioni elettrolitiche, marcatori cardiaci sopra soglia), richiede l’immediata attenzione clinica. Le principali organizzazioni sanitarie internazionali, tra cui il College of American Pathologists (CAP) e la Joint Commission, stabiliscono che questi dati devono essere comunicati direttamente e tempestivamente al clinico responsabile, preferibilmente con conferma di avvenuta ricezione.
Quando questa comunicazione non avviene, si parla di “failure to notify”, una forma di errore sistemico che può comportare gravi danni e costituire una responsabilità professionale sia per il laboratorio sia per il personale clinico coinvolto. L’errore può assumere diverse forme: il laboratorio che non segnala il valore critico secondo le procedure previste; il medico che non legge o ignora la comunicazione ricevuta; l’operatore sanitario che riceve il dato ma non lo trasmette al destinatario finale. In ognuna di queste situazioni, se il paziente subisce un danno evitabile, si configura una responsabilità professionale.
La responsabilità si configura in presenza di tre elementi fondamentali: la condotta omissiva, il danno al paziente e il nesso causale tra omissione e danno. La condotta omissiva consiste nel non comunicare, nel non registrare, nel non recepire oppure nel non agire a fronte di un risultato critico. Il danno può essere una lesione fisica, un peggioramento dello stato clinico, una disabilità permanente o, nei casi più gravi, il decesso. Il nesso causale viene stabilito laddove si dimostri che, se il dato fosse stato comunicato e gestito correttamente, l’evento avverso sarebbe stato evitabile o significativamente attenuato.
I risultati critici più frequentemente trascurati includono iperkaliemia severa, iponatriemia marcata, acidosi metabolica, ipoglicemia grave, positività a emocolture o liquor colture, livelli tossici di farmaci (es. digossina, litio), troponina elevata in contesto suggestivo di sindrome coronarica acuta, INR non controllati in pazienti in terapia anticoagulante, presenza di emorragie attive in emocromo. L’assenza di azione clinica dopo questi esiti può portare a complicanze rapide, quali aritmie fatali, convulsioni, arresto cardiocircolatorio, sepsi, shock o emorragie intracraniche.
Le linee guida raccomandano che ogni struttura sanitaria disponga di un protocollo scritto per la gestione dei risultati critici. Tale protocollo deve prevedere: identificazione di quali valori sono considerati critici, modalità di comunicazione diretta (es. telefono, alert elettronico), tempi di notifica (generalmente entro 30-60 minuti), verifica dell’avvenuta ricezione e documentazione della comunicazione. L’assenza di tali procedure, o il loro mancato rispetto, configura una colpa organizzativa.
Dal punto di vista giuridico, il medico ha la responsabilità di agire tempestivamente una volta ricevuta la notifica. Se il dato viene trasmesso correttamente ma non viene letto, o viene letto e ignorato, il professionista è responsabile per l’omessa reazione terapeutica. Nel caso in cui il dato non venga comunicato per colpa del laboratorio o del sistema informativo, la responsabilità si estende alla struttura. In ambito penale, può configurarsi il reato di lesioni personali colpose o omicidio colposo. In ambito civile, il danno è risarcibile a titolo di danno biologico, morale ed esistenziale.
Un esempio frequente di responsabilità è il caso della sepsi non trattata per mancata segnalazione della positività dell’emocoltura. Se il laboratorio rileva un’infezione batterica resistente agli antibiotici in uso, ma non lo comunica in tempo al medico, e il paziente va incontro a shock settico, il ritardo terapeutico è direttamente collegabile all’omissione. Altri esempi includono pazienti con gravi alterazioni elettrolitiche dimessi senza valutazione, con successiva insorgenza di aritmie; o pazienti oncologici con segni ematologici di recidiva non comunicati al curante.
La tecnologia non elimina la responsabilità, anzi, la accentua. Le piattaforme digitali, se ben configurate, permettono la trasmissione rapida e tracciabile dei risultati critici. Tuttavia, se gli alert non sono attivi, se i medici non controllano regolarmente il sistema, o se non esiste una conferma della lettura, la sicurezza del paziente è comunque compromessa. La giurisprudenza tende ad attribuire maggiore responsabilità al professionista in presenza di strumenti tecnologici non utilizzati correttamente.
Anche la formazione continua del personale ha un ruolo fondamentale. Ogni operatore, dal tecnico di laboratorio al medico di guardia, deve conoscere l’elenco dei valori critici, le procedure di emergenza, i canali di comunicazione da attivare. In molte sentenze, l’errore è stato attribuito non a un singolo gesto, ma alla carenza di cultura organizzativa e alla mancanza di aggiornamento.
La documentazione assume un valore probatorio decisivo. Se la comunicazione è avvenuta ma non è stata tracciata, è come se non fosse mai avvenuta. Se il dato è stato letto ma non sono state annotate decisioni cliniche conseguenti, il medico non potrà dimostrare di aver agito correttamente. L’obbligo documentale vale per ogni passaggio: segnalazione, ricezione, valutazione, intervento.
La giurisprudenza italiana ha ormai consolidato il principio secondo cui la mancata comunicazione di un risultato critico costituisce una violazione del dovere di diligenza. Anche nei casi in cui il paziente era già clinicamente instabile, se vi era la possibilità concreta di intervenire con una terapia mirata, la responsabilità è confermata. Le sentenze parlano di colpa grave in caso di omissione in situazioni di urgenza, colpa lieve in contesti borderline, ma quasi mai escludono del tutto la responsabilità.
Prevenire questi errori richiede un approccio integrato: sistemi di alert efficaci, responsabilità condivisa tra reparti, audit periodici, formazione continua, cultura della tracciabilità. Ogni struttura sanitaria deve sapere che i risultati critici non sono dati qualsiasi, ma messaggi salvavita che devono raggiungere la persona giusta al momento giusto.
In conclusione, la responsabilità medica per mancata comunicazione di risultati critici di laboratorio si configura quando l’informazione viene trascurata, non trasmessa o non gestita correttamente, e da tale omissione deriva un danno al paziente. È una forma di responsabilità silenziosa, spesso legata a dettagli organizzativi, ma che può causare conseguenze devastanti.
Ogni risultato critico è una sirena che suona. Ogni minuto senza risposta è una scelta non fatta. Ogni paziente danneggiato per un dato ignorato è una ferita anche del sistema. E nella medicina moderna, dove tutto è tracciabile e comunicabile, il silenzio non è mai neutro: è colpa. Perché tra il dato che avvisa e il medico che agisce, deve esserci sempre un canale aperto. Sicuro, verificato, immediato.
Quali norme regolano il risarcimento?
- Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017);
- Art. 2043 c.c., risarcimento del danno ingiusto;
- Art. 2236 c.c., responsabilità del professionista sanitario;
- Art. 589 e 590 c.p., lesioni o decesso per colpa medica.
Quali risarcimenti sono stati riconosciuti in Italia?
- Caso di potassiemia critica non comunicata e arresto cardiaco: risarcimento di 1.200.000 euro;
- Emocultura positiva ignorata per oltre 48 ore, con sepsi fulminante: risarcimento agli eredi di 1.400.000 euro;
- Paziente oncologico dimesso senza visione dei risultati critici di laboratorio: risarcimento di 1.000.000 euro per aggravamento della malattia.
A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento?
È fondamentale affidarsi a avvocati con competenza specifica in errori da omissione sanitaria, in grado di:
- Verificare la presenza di valori critici e la mancata comunicazione nei documenti clinici;
- Coinvolgere periti esperti in medicina interna, infettivologia e medicina legale;
- Dimostrare il nesso tra l’omissione e il danno biologico subito;
- Avviare una causa per danni contro strutture pubbliche o private;
- Richiedere il risarcimento per morte evitabile, danno da invalidità o peggioramento della patologia.
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Quando un risultato critico non viene comunicato, il paziente è lasciato senza difese di fronte a un rischio potenzialmente letale. La giustizia, in questi casi, è un diritto sacrosanto.
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