L’utilizzo di strumenti chirurgici e dispositivi medici non sterili rappresenta una delle violazioni più gravi dei protocolli sanitari. La sterilità è un principio cardine nella prevenzione delle infezioni ospedaliere: ogni materiale che entra a contatto con il corpo del paziente deve essere assolutamente privo di agenti patogeni. Quando questo principio viene violato, le conseguenze possono essere devastanti: infezioni gravi, setticemia, complicanze chirurgiche, fallimenti degli impianti protesici e persino la morte.
L’impiego di strumenti contaminati può avvenire in sala operatoria, durante interventi ambulatoriali, nei reparti di degenza o in fase diagnostica (come endoscopie o prelievi). Le cause sono spesso riconducibili a errori umani, malfunzionamenti degli autoclavi, mancanza di formazione, sovraccarico del personale o negligenza nella tracciabilità dei materiali. In ogni caso, l’uso di strumenti non sterili è un errore medico che implica una responsabilità diretta della struttura sanitaria.

Quando il paziente subisce un’infezione o una complicanza riconducibile a questa grave violazione, ha pieno diritto a un risarcimento. La normativa vigente impone standard precisi di sicurezza, igiene e tracciabilità, e ogni struttura è obbligata a dimostrare di averli rispettati. In caso contrario, si configura responsabilità per danno ingiusto.
In questo articolo analizzeremo le principali cause dell’utilizzo di strumenti non sterili, le responsabilità legali, le normative aggiornate al 2025, i risarcimenti già ottenuti in casi reali e le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità, tra i principali riferimenti in Italia per la tutela del paziente danneggiato.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali sono le cause più frequenti dell’utilizzo di strumenti non sterili in ambito sanitario?
L’utilizzo di strumenti non sterili rappresenta una delle violazioni più gravi delle pratiche di sicurezza in ambito sanitario. In un’epoca in cui l’attenzione all’igiene e alla prevenzione delle infezioni ospedaliere è diventata centrale nei protocolli clinici, l’uso di dispositivi contaminati, non correttamente sterilizzati o visibilmente compromessi è inaccettabile. Eppure, continua ad accadere, spesso in silenzio, troppo spesso senza che il paziente ne sia consapevole. Le conseguenze possono essere devastanti: infezioni locali, setticemia, trasmissione di virus come l’HCV e l’HBV, danneggiamento irreversibile dei tessuti, complicanze post-operatorie e, nei casi più estremi, decesso.
La prima causa di questo errore è la mancanza di attenzione ai protocolli di sterilizzazione, che in molti contesti ospedalieri sono ancora gestiti in modo non standardizzato. Esistono linee guida rigorose a livello nazionale e internazionale su come devono essere puliti, confezionati, sterilizzati e conservati gli strumenti chirurgici e diagnostici. Tuttavia, nella pratica quotidiana, questi protocolli vengono talvolta semplificati, interpretati soggettivamente o addirittura ignorati. Ciò accade soprattutto in situazioni di emergenza, nei turni notturni, in reparti sovraffollati o in piccole strutture sanitarie dove la dotazione tecnologica è limitata. Quando il carico di lavoro è elevato e il personale è sotto pressione, il rischio che venga riutilizzato un dispositivo non ancora passato dall’autoclave, o conservato in modo scorretto, aumenta sensibilmente.
Un’altra causa frequente è la cattiva gestione della catena della sterilità. Anche quando uno strumento è stato effettivamente sterilizzato, può perdere la propria sterilità se la catena logistica non viene rispettata. La confezione può danneggiarsi, l’ambiente di conservazione può essere inadeguato, oppure può essere aperta accidentalmente e poi riutilizzata. Inoltre, la mancata etichettatura corretta o l’assenza di datazione delle buste sterilizzate rende impossibile verificare se un determinato strumento ha superato la sua validità. In alcuni casi, addirittura, viene riutilizzato materiale monouso, come pinze, speculum, cannule e siringhe, per motivi economici o per semplice “abitudine”, con il falso mito che “basta disinfettare bene”. Ma disinfettare non è sterilizzare, e questo errore concettuale è alla base di numerosi episodi di infezione nosocomiale.
L’aspetto organizzativo gioca un ruolo determinante. In molte strutture sanitarie italiane, i servizi di sterilizzazione centralizzata sono sottodimensionati rispetto alle reali necessità. Questo significa che il numero di cicli giornalieri disponibili non è sufficiente a coprire la richiesta operativa dei reparti, costringendo il personale a scelte discutibili: rinviare interventi, improvvisare con strumenti alternativi, oppure – nella peggiore delle ipotesi – riutilizzare strumenti non perfettamente processati. Anche i sistemi di controllo interni sono spesso deboli. Le checklist di verifica vengono saltate, i tag indicatori non controllati con attenzione, e l’eventuale responsabilità viene diluita all’interno di un’organizzazione che non attribuisce mai a nessuno il compito di garantire, in modo esclusivo, la sterilità dei materiali. La responsabilità diventa collettiva e, quindi, invisibile.
Tra le situazioni più a rischio vi è quella delle procedure ambulatoriali in contesti territoriali. Studi odontoiatrici, ambulatori privati, centri estetici medicalizzati, piccoli poliambulatori: qui il livello di attenzione alla sterilità dipende in larga parte dalla preparazione e dalla coscienza del singolo operatore. Non sempre vengono rispettati i cicli corretti di autoclave, non sempre si utilizzano materiali monouso quando previsto, e – fatto ancora più grave – spesso non esiste alcun registro o documentazione delle procedure di sterilizzazione eseguite. Questo rende praticamente impossibile tracciare un’eventuale contaminazione, individuare l’origine di un’infezione post-procedurale, o valutare la conformità a standard igienico-sanitari. In questi casi, l’unica barriera contro l’errore è l’etica professionale del singolo.
Anche la formazione del personale è una variabile critica. Molti operatori sanitari non ricevono una formazione specifica e aggiornata sulle tecniche di sterilizzazione e sulla gestione dello strumentario sterile, e si affidano a conoscenze acquisite anni prima o apprese “sul campo”. La convinzione che sia sufficiente lavare con disinfettante ad alto livello, oppure “dare una passata con l’alcol”, è ancora presente. Questo approccio empirico è del tutto inadeguato, soprattutto se si considera la resistenza di alcuni batteri e virus ai comuni disinfettanti. In ambito chirurgico, ginecologico, dermatologico e odontoiatrico, l’unica sicurezza accettabile è la sterilità certificata. Tutto il resto è rischio.
Particolarmente gravi sono i casi in cui, per mancanza di strumenti sterili disponibili, si modifica l’intervento previsto pur di non rimandarlo. In sala operatoria, ad esempio, può succedere che un intervento venga eseguito con una pinza “di fortuna”, non prevista, o con uno strumento già utilizzato in una procedura precedente e ritenuto “sufficientemente pulito”. Anche se queste decisioni vengono giustificate con l’urgenza o con la volontà di “non far aspettare il paziente”, si tratta di violazioni gravissime dei protocolli e del diritto alla sicurezza del paziente stesso.
L’aspetto psicologico e culturale del personale ha anch’esso un ruolo. In alcune realtà, ammettere di aver commesso un errore, o di non essere certi della sterilità di un oggetto, viene vissuto come una colpa professionale inammissibile. Piuttosto che segnalare il problema, si preferisce tacere e andare avanti, sperando che “non succeda nulla”. Questa cultura del silenzio è tra le principali cause della mancata segnalazione degli incidenti legati alla sterilità. Se non si sviluppa un ambiente di lavoro in cui si possa segnalare un dubbio senza timore di ritorsioni, gli errori continueranno a ripetersi e a restare impuniti.
Dal punto di vista clinico, le conseguenze dell’utilizzo di strumenti non sterili possono manifestarsi con gravità variabile, ma sempre con potenziale rischio per la salute del paziente. Infezioni della ferita chirurgica, ascessi, fistole, infezioni sistemiche, endocarditi, trasmissione di patogeni virali: sono tutte complicanze documentate, talvolta anche in pazienti immunocompetenti. Nei soggetti fragili o immunocompromessi, anche una contaminazione lieve può innescare un quadro clinico drammatico. In ambito ginecologico e ostetrico, l’utilizzo di speculum o strumenti intrauterini non sterili può causare infezioni pelviche che compromettono la fertilità. In odontoiatria, uno strumento contaminato può portare a infezioni ossee, ascessi, fino a complicanze sistemiche. In campo chirurgico, una ferita infetta può richiedere un nuovo intervento, un lungo ciclo di antibiotici, o portare alla deiscenza della sutura.
Le implicazioni medico-legali sono gravi. Quando si dimostra che un’infezione è compatibile con l’uso di strumentario non sterile, la responsabilità professionale è difficilmente difendibile. Le linee guida sono chiare, la letteratura scientifica è inequivocabile, e la tracciabilità della sterilità è un requisito essenziale in qualsiasi struttura accreditata. Se la documentazione non esiste o non è affidabile, la presunzione di colpa si consolida. In molte sentenze, i giudici hanno riconosciuto la responsabilità sanitaria anche in assenza di una prova diretta dell’errore, proprio in virtù della violazione del principio di prevenzione del rischio.
In conclusione, l’utilizzo di strumenti non sterili non è mai frutto del caso, ma della somma di mancanze individuali, organizzative, formative e culturali. È un errore che nasce nella disorganizzazione, si nutre della fretta, cresce nell’ignoranza e si giustifica con l’abitudine. Eppure, è uno degli errori più facilmente evitabili: basta rispettare i protocolli, formare il personale, garantire una logistica efficiente e promuovere una cultura della sicurezza. Ogni strumento utilizzato su un paziente dovrebbe essere sterile senza eccezioni, senza compromessi, senza scorciatoie. Perché non c’è nulla di più ingiusto che contrarre un’infezione per mano di chi doveva curare. E non c’è nulla di più grave di un errore evitabile che si trasforma in un danno permanente.
Quando si configura la responsabilità medica per utilizzo di strumenti non sterili?
L’utilizzo di strumenti non sterili durante una procedura medica o chirurgica rappresenta una delle violazioni più gravi delle norme di asepsi e prevenzione delle infezioni. L’intera pratica sanitaria moderna si fonda sul principio che ogni atto invasivo deve essere eseguito in condizioni di sterilità controllata, al fine di evitare la trasmissione di agenti patogeni e la comparsa di complicanze infettive che, in molti casi, possono mettere a rischio la vita del paziente. Quando un operatore sanitario utilizza strumenti non correttamente sterilizzati, consapevolmente o per errore, si configura una responsabilità sanitaria netta e difficilmente giustificabile.
L’obbligo di utilizzare materiale sterile è un principio fondamentale della medicina ospedaliera e ambulatoriale. Questo vale per ogni tipo di intervento: chirurgico, diagnostico invasivo, odontoiatrico, ginecologico, ortopedico, endoscopico o anche per piccole manovre ambulatoriali come medicazioni, punture o sutura di ferite. La responsabilità non riguarda solo il medico che esegue la procedura, ma si estende all’infermiere che prepara il materiale, al personale tecnico della sterilizzazione, al direttore sanitario e all’intera struttura che deve garantire l’efficacia dei protocolli.
Le infezioni derivanti da strumenti contaminati possono essere localizzate o sistemiche. Nei casi più lievi, si possono sviluppare infezioni della ferita chirurgica, suppurazioni, ascessi sottocutanei. Nei casi più gravi, si verificano sepsi, endocarditi, meningiti, artriti settiche, infezioni protesiche, polmoniti da aspirazione batterica e infezioni a trasmissione ematica come epatite B, C e HIV. Tutte queste patologie, se correlate con un’infezione nosocomiale tracciabile, pongono una responsabilità diretta in capo a chi non ha rispettato le regole di asepsi.
L’errore può derivare da una serie di condotte colpose. La mancata verifica della confezione sterile, l’uso di strumenti riutilizzati senza corretta sterilizzazione, la contaminazione accidentale non segnalata, la conservazione inappropriata del materiale già sterilizzato, la rottura della barriera protettiva, o ancora, l’utilizzo di strumenti scaduti o sottoposti a cicli di sterilizzazione incompleti. In nessuno di questi casi è ammessa la giustificazione dell’errore umano come scusante, poiché la sterilità è considerata un prerequisito minimo e irrinunciabile.
Le linee guida internazionali sono chiare: ogni materiale che entra in contatto con tessuti sterili deve essere stato sottoposto a un ciclo validato di sterilizzazione. Questo può avvenire tramite autoclave a vapore, gas etilene, perossido di idrogeno, raggi gamma o ossido di etilene, in base al tipo di materiale. Il materiale monouso deve essere aperto solo al momento della procedura e mai riutilizzato. La tracciabilità della sterilizzazione è un elemento indispensabile, non solo clinico ma anche legale. Ogni strumento sterilizzato deve essere registrato con data, numero di lotto, metodo di sterilizzazione, operatore responsabile e controllo di efficacia del ciclo.
Il medico ha la responsabilità di verificare la sterilità del materiale prima dell’utilizzo. Non è sufficiente affidarsi all’infermiere o al tecnico: l’operatore che introduce lo strumento nel corpo del paziente è responsabile finale dell’atto. Se lo strumento si rivela contaminato e l’operatore non ha controllato l’integrità della confezione, l’indicatore chimico o la corretta manipolazione, si configura una condotta negligente, imperita e imprudente.
Anche la gestione degli strumenti riutilizzabili comporta una responsabilità collettiva. In molti casi, l’errore deriva da una catena organizzativa carente: cicli di sterilizzazione mal eseguiti, controlli di qualità non effettuati, mancanza di supervisione, personale non formato. Se una pinza chirurgica, un endoscopio o un manipolo odontoiatrico non vengono adeguatamente sterilizzati prima dell’uso, e ciò causa un’infezione, la responsabilità non è solo dell’operatore ma dell’intera struttura sanitaria, che avrebbe dovuto garantire la sicurezza del processo.
Le infezioni derivanti da strumenti non sterili sono sempre considerate eventi evitabili. In sede medico-legale, il principio cardine è che nessun paziente debba contrarre un’infezione correlata a strumenti inappropriatamente sterilizzati. La presenza di germi ambientali, flora ospedaliera o batteri multiresistenti in un sito che doveva essere sterile è una prova indiretta ma potente di contaminazione iatrogena. In molti casi, l’infezione viene considerata come prova della mancanza di sterilità, anche se non si riesce a identificare con certezza l’errore tecnico.
La responsabilità penale può essere configurabile nei casi più gravi. Se da un’infezione grave derivano lesioni personali permanenti, aborto, danni neurologici, amputazioni o morte, e se l’infezione è riconducibile all’uso di strumenti contaminati, il sanitario può essere chiamato a rispondere per lesioni colpose o omicidio colposo. A livello civile, il danno biologico, morale ed esistenziale può dar luogo a risarcimenti importanti, anche in caso di danni permanenti non invalidanti.
La documentazione clinica è cruciale. Ogni procedura deve essere tracciata: data e ora, strumenti utilizzati, modalità di sterilizzazione, personale coinvolto, eventuali non conformità rilevate, gestione delle complicanze. In mancanza di questi elementi, il paziente danneggiato ha la facoltà di richiedere la presunzione di colpa. Sarà quindi il medico o la struttura a dover dimostrare di aver agito correttamente, secondo il principio dell’inversione dell’onere della prova nei casi di responsabilità sanitaria.
La giurisprudenza italiana ha riconosciuto in numerosi casi la responsabilità medica e della struttura per l’uso di strumenti non sterili. Interventi di routine finiti in setticemia, infezioni ortopediche da protesi infette, endocarditi da cateteri contaminati, infezioni uterine da strumenti ginecologici non sterili: tutti esempi di danni evitabili, che la Corte di Cassazione ha qualificato come colpe gravi, spesso riconducibili a carenze sistemiche più che a errori individuali.
La prevenzione dell’errore parte dalla cultura della sicurezza. Ogni operatore deve sapere che l’asepsi non è un optional ma una responsabilità personale e collettiva. Le strutture devono adottare sistemi di sterilizzazione validati, personale formato, tracciabilità elettronica degli strumenti, checklist chirurgiche, audit periodici e procedure di allerta per ogni rottura del protocollo.
In conclusione, la responsabilità medica per l’utilizzo di strumenti non sterili si configura quando si verifica una violazione delle norme di igiene e sicurezza clinica, che causa un’infezione evitabile al paziente. È una colpa che si fonda su presupposti chiari, su regole scritte e su protocolli universalmente riconosciuti. Non si tratta di una semplice dimenticanza, ma di un fallimento del sistema di protezione del paziente.
Ogni strumento contaminato è un rischio introdotto nel corpo. Ogni infezione da materiale non sterile è un danno che poteva e doveva essere evitato. Ogni paziente ha diritto alla sicurezza assoluta, non alla fortuna. Perché nella medicina moderna, ciò che è sporco non è solo inaccettabile: è colpevole. E il dovere del medico, prima ancora di curare, è proteggere. A partire dagli strumenti che utilizza.
Quali norme regolano la responsabilità?
- Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017);
- Art. 2043 c.c., risarcimento del danno ingiusto;
- Art. 2236 c.c., colpa professionale in ambito sanitario;
- Art. 589 e 590 c.p., lesioni o decesso da errore sanitario.
Quali risarcimenti sono stati ottenuti in casi simili?
- Paziente infettato da strumenti contaminati durante intervento ortopedico: risarcimento di 1.200.000 euro;
- Infezione da endoscopio non sterilizzato correttamente: risarcimento di 950.000 euro;
- Sepsi post-chirurgica con prolungata terapia intensiva: risarcimento di 1.300.000 euro.
A chi rivolgersi per ottenere giustizia?
Affrontare un caso di infezione da strumenti non sterili richiede una difesa legale altamente qualificata. È fondamentale rivolgersi a avvocati esperti in responsabilità sanitaria per errore procedurale, capaci di:
- Analizzare tutta la documentazione sanitaria e i registri di sterilizzazione;
- Ottenere una perizia medico-legale e microbiologica specialistica;
- Dimostrare il nesso tra infezione e violazione del protocollo;
- Avviare un’azione legale per risarcimento danni completo;
- Gestire contenziosi complessi con strutture pubbliche o private.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità lavorano con infettivologi, microbiologi, chirurghi, tecnici di sterilizzazione e medici legali, per garantire una tutela fondata, tecnica e mirata al riconoscimento integrale del danno.
Quando la salute è messa in pericolo per strumenti non sterilizzati, il diritto al risarcimento è pieno. Far valere i propri diritti è un passo fondamentale per ottenere giustizia e prevenire nuovi errori.
Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici: