Il periodo post-operatorio è una fase cruciale del percorso di cura del paziente. Dopo un intervento chirurgico, il corpo può manifestare complicanze che, se non riconosciute e trattate tempestivamente, possono determinare gravi danni permanenti o persino il decesso. La vigilanza clinica, il monitoraggio continuo e la capacità di identificare tempestivamente segnali anomali sono doveri fondamentali per il personale medico e infermieristico.
Le complicanze post-operatorie più comuni includono infezioni, emorragie, trombosi, ischemie, occlusioni intestinali, perforazioni, fistole, insufficienze d’organo e complicanze neurologiche. Il mancato riconoscimento di questi eventi può dipendere da negligenza, sottovalutazione dei sintomi, mancato rispetto dei protocolli o errori nella comunicazione clinica.

Quando una complicanza evitabile o trattabile viene ignorata o affrontata con ritardo, il paziente ha il diritto di ottenere un risarcimento per danno biologico, patrimoniale, morale ed esistenziale.
In questo articolo vedremo quali sono le complicanze post-operatorie più gravi, le responsabilità mediche correlate, le leggi aggiornate al 2025, i casi concreti risarciti e le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità, con particolare attenzione al ruolo del monitoraggio clinico.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quando si configura la responsabilità medica per non aver riconosciuto complicanze post-operatorie?
Il decorso post-operatorio è una fase cruciale nel percorso terapeutico del paziente chirurgico. Non termina con la sutura dell’incisione o con il risveglio dall’anestesia: è in quel momento che inizia la vera sfida clinica, fatta di monitoraggio continuo, prevenzione delle complicanze e tempestivo riconoscimento degli eventi avversi. La mancata individuazione di una complicanza post-operatoria rappresenta uno degli errori più gravi nella pratica clinica, perché spesso il ritardo diagnostico coincide con il peggioramento irreversibile delle condizioni del paziente.
Le complicanze possono essere precoci o tardive, locali o sistemiche, lievi o potenzialmente fatali. Infezioni della ferita chirurgica, emorragie interne, ischemie, trombosi venose profonde, sepsi, deiscenze anastomotiche, versamenti addominali, occlusioni intestinali, fistole, perforazioni, embolie, polmoniti da ipoventilazione, ritenzione urinaria, ematomi compressivi, complicanze da catetere o da dispositivi medici: l’elenco è lungo, e ogni tipo di chirurgia porta con sé un rischio specifico. Non è la presenza di una complicanza in sé a configurare responsabilità, ma il mancato riconoscimento tempestivo e la risposta clinica inadeguata.
L’errore più comune consiste nel sottovalutare i primi segni clinici. Febbre, dolore non controllato, distensione addominale, alterazioni dell’alvo, riduzione della diuresi, tachicardia persistente, modifiche dello stato di coscienza, cambiamenti nei parametri ematochimici, sono tutti campanelli d’allarme che, se trascurati, possono ritardare la diagnosi di una complicanza. Spesso questi segnali vengono attribuiti a un normale decorso post-operatorio, o a una risposta infiammatoria fisiologica, senza una rivalutazione critica del quadro clinico.
La responsabilità si configura con chiarezza quando vi è un ritardo diagnostico non giustificabile, in presenza di elementi clinici già evidenti. Se il paziente presenta dolore progressivo, febbre alta dopo il terzo giorno, leucocitosi crescente, aumento della PCR o della procalcitonina, o ancora un addome tratturato o ipertimpanico, e non viene richiesta per tempo un’indagine strumentale (come TAC, ecografia, RX addome), la condotta clinica è omissiva. Il tempo è un fattore decisivo, soprattutto in caso di raccolte infette, emorragie interne o peritoniti, dove ogni ora può fare la differenza.
Il monitoraggio clinico deve essere continuo e proporzionato alla complessità dell’intervento. Interventi maggiori richiedono un follow-up serrato: controlli orari dei parametri vitali, rivalutazioni regolari da parte del chirurgo, esami ematochimici quotidiani, tracciamento della funzione intestinale e urinaria, controllo della ferita. Se il paziente viene lasciato in osservazione generica, senza un piano di sorveglianza personalizzato, l’omissione diventa organizzativa oltre che individuale.
Anche la comunicazione tra medici e infermieri gioca un ruolo cruciale. In molti casi, i segni iniziali di una complicanza vengono osservati dal personale infermieristico, ma non vengono adeguatamente riferiti o registrati. La responsabilità in questi casi è doppia: da un lato per mancata comunicazione efficace, dall’altro per mancata verifica e attivazione da parte del medico. Un’informazione non trasmessa è un’opportunità di diagnosi perduta.
Il paziente deve essere ascoltato. Se lamenta dolore anomalo, se riferisce sintomi in peggioramento o sensazioni insolite, non può essere rassicurato con superficialità. L’esperienza soggettiva del paziente è spesso il primo segnale di una complicanza nascente. Ignorarla o banalizzarla significa spegnere un campanello d’allarme clinico.
La documentazione clinica deve essere completa e dettagliata. Ogni rivalutazione, ogni decisione di non eseguire esami, ogni sintomo riferito o osservato, ogni variazione nei parametri deve essere annotata. Se la cartella clinica è lacunosa, se mancano le annotazioni di sorveglianza, se le modifiche nei valori ematici non vengono commentate, il sospetto di un’omissione diventa forte in sede di contenzioso.
La giurisprudenza ha riconosciuto con sempre maggiore frequenza la responsabilità medica per complicanze post-operatorie non diagnosticate o trattate tardivamente. In molte sentenze, il punto critico è rappresentato dal mancato uso degli strumenti diagnostici a disposizione. Se un paziente con febbre e dolore addominale non viene sottoposto a TAC, se un paziente con dispnea post-operatoria non riceve una TAC torace o un ECG, se un paziente con scarso recupero funzionale non viene rivalutato in modo approfondito, la colpa viene attribuita all’imperizia e alla negligenza.
La struttura sanitaria è responsabile quando mancano protocolli di sorveglianza post-operatoria, quando non vi è disponibilità di personale esperto, o quando i tempi di risposta per gli esami strumentali sono inadeguati. In molti casi, l’assenza di una diagnostica per immagini h24, la difficoltà nel reperire consulenze specialistiche notturne o nei festivi, diventano elementi chiave nella catena causale che conduce al danno.
La formazione continua del personale è un requisito imprescindibile. Chirurghi, anestesisti, internisti, infermieri devono essere aggiornati sul riconoscimento precoce delle complicanze, sulla gestione delle infezioni ospedaliere, sull’uso delle terapie empiriche immediate, e sulle strategie diagnostiche rapide. La medicina moderna impone competenze trasversali e tempestività assoluta.
Anche il consenso informato ha un ruolo indiretto ma rilevante. Il paziente deve essere avvertito che il decorso può presentare complicanze, che alcuni sintomi devono essere riferiti senza esitazione, e che non tutto ciò che sembra “normale” lo è davvero. Il paziente informato è anche un paziente che collabora alla prevenzione.
In conclusione, la responsabilità medica per mancata diagnosi di complicanze post-operatorie si configura ogniqualvolta il paziente manifesti segni clinici o laboratoristici suggestivi di una patologia in evoluzione, e il personale non intervenga tempestivamente con esami, consulenze o trattamenti idonei. È una responsabilità che nasce dall’inazione, dalla distrazione o dalla sottovalutazione del rischio.
Ogni sintomo ignorato è un tempo perso. Ogni esame non richiesto è una diagnosi rimandata. Ogni paziente non ascoltato è una voce che scompare tra i numeri di un reparto. Ma nella medicina ospedaliera, il post-operatorio non è la coda dell’intervento: è il cuore della guarigione. E chi non vigila, lascia spazio all’errore.
Quali errori portano al mancato riconoscimento?
- Mancata rilevazione dei segni vitali e parametri anomali;
- Sottovalutazione di sintomi come dolore addominale, febbre, ipotensione, tachicardia;
- Diagnosi errate (scambiati per ansia, stipsi o postumi normali);
- Mancata esecuzione di esami diagnostici (TAC, ecografie, esami ematici);
- Ritardi nel coinvolgere lo specialista o nel riaprire il sito chirurgico;
- Omissione di follow-up o controlli post-operatori sistematici.
Quali sono le cause più frequenti del mancato riconoscimento delle complicanze post-operatorie?
L’intervento chirurgico, per quanto ben eseguito, non segna mai la fine del rischio clinico. Anzi, è proprio nel periodo post-operatorio che il paziente diventa più vulnerabile, più esposto a insidie spesso silenziose, rapide e potenzialmente fatali. Emorragie, infezioni, occlusioni, trombosi, perforazioni, ischemie: sono complicanze note, documentate, descritte nei protocolli e negli studi scientifici. Eppure, ogni giorno, in reparti chirurgici di ogni livello, ci sono pazienti che peggiorano senza che nessuno se ne accorga in tempo. Il mancato riconoscimento delle complicanze post-operatorie è una delle prime cause di danno evitabile in ospedale. E nella maggior parte dei casi non è dovuto all’eccezionalità della situazione, ma alla banalità dell’errore.
Uno dei motivi principali è la sottovalutazione dei segni precoci. I sintomi iniziali delle complicanze post-chirurgiche sono spesso sfumati: un po’ di febbre, una lieve tachicardia, una pressione instabile, una nausea persistente, una modesta difficoltà respiratoria. Nulla di clamoroso, nulla che accenda subito l’allarme. Ma è proprio in questi segnali lievi che si nasconde la traiettoria del peggioramento. Se il personale non è formato, se l’attenzione è bassa, se si tende a rimandare l’approfondimento, si perde la finestra temporale per intervenire. E quando il quadro clinico si aggrava, spesso è troppo tardi per agire in modo risolutivo. Ogni parametro alterato, dopo un’operazione, va trattato come un messaggio da decifrare. Non come una casualità.
Un’altra causa molto frequente è la normalizzazione impropria dei sintomi. In molti reparti chirurgici, sintomi come dolore, febbre, gonfiore, malessere generale vengono considerati “normali” dopo un intervento. E in parte è vero. Ma la linea tra ciò che è fisiologico e ciò che è patologico è sottile, e si può facilmente oltrepassare. Se il paziente ha febbre a 38, si dice “è normale nel post-operatorio”. Se ha un addome teso, si parla di “ileo fisiologico”. Se ha dolore toracico, si ipotizza una contrazione muscolare. Ma quando queste manifestazioni persistono, si intensificano o si associano ad altri segni, la normalizzazione diventa pericolosa. Il rischio maggiore non è vedere troppi sintomi: è non vedere quelli giusti.
Spesso le complicanze post-operatorie non vengono riconosciute in tempo perché manca una sorveglianza strutturata e continua. Il paziente viene operato, trasferito in reparto, e poi lasciato alla sorveglianza ordinaria. I controlli si fanno a orari prestabiliti, i parametri vitali vengono presi ogni tot ore, il medico passa una volta al giorno. Se qualcosa cambia tra un turno e l’altro, tra una visita e l’altra, può passare inosservato. Non tutti i reparti chirurgici hanno monitoraggio continuo, personale dedicato, o sistemi di allerta precoce. Non ci sono punteggi EWS applicati con costanza. Il paziente peggiora nella notte, nel weekend, nel cambio turno. E quando viene rivalutato, i segnali sono già troppo chiari per lasciare dubbi. Ma troppo tardi per evitare danni.
Un errore diffuso è affidarsi esclusivamente alla valutazione del paziente stesso. In fase post-operatoria, molti pazienti tendono a minimizzare i sintomi per non disturbare, per dimettersi prima, per non sembrare lamentosi. Altri, al contrario, esprimono malesseri in modo confuso, a causa dell’anestesia residua, della stanchezza o del dolore. Se il personale non ascolta con attenzione, se non legge tra le righe, se non interroga il corpo oltre le parole, le complicanze passano inosservate. Nessun paziente dice “ho una peritonite in atto”. Dice “ho male qui”. Ma se quel “qui” viene archiviato come banale, il dolore diventa diagnosi mancata.
La frammentazione dell’assistenza è un altro nodo centrale. Il chirurgo esegue l’intervento e affida il paziente al reparto. Il medico di reparto si occupa della terapia, ma non sempre ha un quadro completo della procedura eseguita. L’infermiere rileva i parametri, ma non li interpreta. Il consulente di turno visita il paziente senza conoscere i dettagli. Ognuno fa una parte, ma nessuno ha una visione d’insieme. In questo vuoto si nascondono le complicanze. Se la nausea viene considerata dal chirurgo, la febbre dal medico e l’addome teso dall’infermiere, nessuno mette insieme i pezzi del puzzle. E il rischio diventa invisibile per tutti.
A volte è proprio l’autorità del chirurgo ad essere un ostacolo alla tempestiva individuazione del problema. Se un paziente operato da un primario noto in ospedale comincia a peggiorare, si tende a pensare che sia solo un decorso atteso. Nessuno osa suggerire che qualcosa non va. Nessuno propone una TAC, un’ecografia, una rivalutazione. Il timore di “mettere in discussione” il gesto chirurgico paralizza l’azione clinica. Ma la chirurgia, anche la migliore, può avere complicanze. E riconoscerle non è un’accusa: è il primo passo per curare davvero.
Ci sono poi gli errori legati alla documentazione clinica. Se le informazioni sull’intervento non sono chiare, se il referto operatorio è vago, se non si sa esattamente cosa è stato fatto, dove e come, diventa difficile anche solo ipotizzare quale tipo di complicanza possa manifestarsi. In caso di revisione, di accessi combinati, di sanguinamenti gestiti intra-operatoriamente, la vigilanza dovrebbe essere ancora più alta. Ma se nessuno sa che è stata lesa una piccola arteria, o che c’è stato un problema durante l’emostasi, nessuno starà allerta per una possibile emorragia. E così, la cartella clinica diventa un punto cieco invece che uno strumento di prevenzione.
L’eccesso di fiducia negli esami strumentali può essere fuorviante. Una TAC negativa, una radiografia “nella norma”, un’ecografia poco chiara possono far abbassare la guardia. Ma gli esami non sostituiscono il ragionamento clinico. Non tutte le perforazioni si vedono alla prima TAC. Non tutte le infezioni si manifestano con un ascesso ben definito. Alcune complicanze sono visibili solo con l’evoluzione. Se ci si ferma al primo referto rassicurante, si rischia di perdere l’evoluzione del quadro. E quando si decide di ripetere l’esame, è spesso già troppo tardi.
Anche il paziente dimesso troppo presto può rappresentare un fallimento nella gestione delle complicanze. Se un paziente presenta sintomi sospetti e viene mandato a casa con analgesici e antibiotici “perché tutto sembra tranquillo”, si corre un rischio enorme. Alcune complicanze si manifestano tra le 48 e le 72 ore dopo l’intervento. Una febbre che compare a casa, un dolore addominale crescente, un gonfiore anomalo: se non c’è un piano di monitoraggio, un punto di riferimento, una rivalutazione garantita, la complicanza esplode fuori dall’ospedale. E spesso, in emergenza.
Dal punto di vista medico-legale, il mancato riconoscimento tempestivo di una complicanza post-operatoria è una delle prime cause di contenzioso in ambito chirurgico. I giudici, in questi casi, valutano se la complicanza fosse prevedibile, riconoscibile, diagnosticabile. Se c’erano segni ignorati. Se il monitoraggio era adeguato. Se le richieste del paziente sono state ascoltate. Se sono stati fatti gli accertamenti necessari. E in moltissimi casi, la risposta è no. Non perché mancavano i mezzi. Ma perché è mancata la vigilanza clinica.
In conclusione, ogni complicanza post-operatoria non riconosciuta in tempo è un’occasione persa per intervenire prima, meglio, con meno conseguenze. La chirurgia moderna non può considerarsi conclusa con l’ultimo punto di sutura. Inizia allora una fase diversa, fatta di ascolto, osservazione, confronto, rivalutazione. Serve attenzione ai segnali deboli, spirito critico, assenza di ego, e soprattutto una presenza clinica costante. Perché il paziente non peggiora mai all’improvviso. Sono i suoi sintomi a non essere stati visti abbastanza presto. E in medicina, guardare troppo tardi è come non aver guardato affatto.
Quali sono le leggi applicabili?
- Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017) sulla sicurezza delle cure e la responsabilità sanitaria;
- Art. 2043 c.c., per danno ingiusto da fatto illecito;
- Art. 2236 c.c., responsabilità tecnica del professionista;
- Art. 589 e 590 c.p., lesioni o omicidio colposo per errori sanitari;
- Linee guida chirurgiche e post-operatorie aggiornate al 2025.
Quali risarcimenti sono stati riconosciuti?
- Paziente deceduto per sepsi non riconosciuta dopo colecistectomia: risarcimento di 2.300.000 euro agli eredi;
- Uomo operato di ernia, sviluppa fistola e infezione trascurata: risarcimento di 1.850.000 euro;
- Paziente dimesso senza riconoscere emorragia interna, morto dopo 24 ore: risarcimento di 2.000.000 euro.
A chi rivolgersi per ottenere giustizia?
In caso di mancato riconoscimento di complicanze post-operatorie, è necessario rivolgersi a avvocati con competenze specifiche in responsabilità chirurgica e clinica. La tutela prevede:
- Analisi dettagliata della documentazione clinica e degli esami effettuati;
- Collaborazione con chirurghi, rianimatori, infettivologi, medici legali;
- Ricostruzione delle omissioni, dei ritardi e degli errori di monitoraggio;
- Dimostrazione del nesso causale tra mancata diagnosi e danno subito;
- Azione risarcitoria in sede civile e penale, con richiesta integrale dei danni.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità lavorano con esperti in chirurgia, rianimazione e medicina legale forense, garantendo una tutela rigorosa, competente e documentata nei casi di complicanze post-operatorie non riconosciute.
Il paziente operato ha diritto a cure vigilanti e tempestive. Se una complicanza viene ignorata, e ciò causa un danno, la legge riconosce il diritto a un risarcimento completo.