L’utilizzo di cateteri venosi, vescicali o drenaggi chirurgici è comune nella pratica clinica ospedaliera. Tuttavia, il mancato rispetto delle tempistiche per la loro rimozione può causare complicanze gravi, come infezioni, sepsi, flebiti, calcoli, lesioni iatrogene e compromissione funzionale degli organi coinvolti. Quando il catetere rimane in sede oltre il tempo necessario senza una giustificazione clinica valida, si configura una condotta negligente che può dare diritto a un risarcimento.
I cateteri non sono strumenti inerti: ogni ora di permanenza in più aumenta il rischio di danno. Per questo, le linee guida nazionali e internazionali raccomandano una sorveglianza costante, una valutazione quotidiana della necessità del presidio e la rimozione tempestiva appena possibile.

Quando il ritardo è causato da disorganizzazione, sottovalutazione dei rischi o assenza di protocolli clinici, e provoca un danno, il paziente ha pieno diritto a essere risarcito per il danno biologico, morale, esistenziale ed economico subito.
In questo articolo approfondiremo le responsabilità sanitarie legate al ritardo nella rimozione dei cateteri, le principali complicanze, la normativa vigente fino al 2025, i casi reali risarciti e le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità, con particolare attenzione al concetto di prevenzione dell’evento avverso.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali tipi di cateteri sono più frequentemente coinvolti in casi di ritardo?
- Cateteri venosi centrali (CVC) utilizzati per infusioni, nutrizione parenterale o terapia antibiotica;
- Cateteri vescicali a permanenza, impiegati nel post-operatorio o per pazienti non autosufficienti;
- Drenaggi chirurgici post-intervento, mantenuti per evitare raccolte ematiche o infezioni;
- Cateteri PICC (periferici ad inserzione centrale) utilizzati nei trattamenti oncologici;
- Drenaggi toracici o addominali.
Quali sono le cause più frequenti del ritardo nella rimozione di cateteri?
In un ospedale moderno, dove ogni atto medico dovrebbe essere giustificato, monitorato, documentato, uno degli errori più silenziosi e trascurati è anche uno dei più diffusi: il ritardo nella rimozione dei cateteri. Che si tratti di un catetere vescicale, di un catetere venoso centrale, di un PICC o di un drenaggio, ogni giorno migliaia di dispositivi rimangono in sede più del necessario, senza una reale indicazione clinica, esponendo i pazienti a rischi evitabili. Non si tratta di semplice disattenzione. È una questione di organizzazione, di cultura assistenziale, di responsabilità frammentate. E ogni giorno di permanenza non necessaria può diventare il preludio a complicanze gravi.
Una delle prime cause è l’assenza di una rivalutazione strutturata e sistematica dell’indicazione. Spesso il catetere viene posizionato in un momento acuto: per monitorare la diuresi in terapia intensiva, per somministrare terapie complesse in un paziente instabile, per gestire un intervento chirurgico, per drenare una cavità corporea. Ma quando la situazione migliora, nessuno si prende il tempo di chiedersi se quel presidio serva ancora. La routine prende il sopravvento. Le condizioni cambiano, ma il catetere resta. Non c’è un allarme che suoni. Non c’è un sistema che imponga una decisione attiva. Il presidio diventa invisibile, finché non genera problemi.
Un altro fattore è la delega diffusa nella gestione tra figure professionali diverse. L’infermiere segnala che il catetere potrebbe essere rimosso, ma attende l’ordine del medico. Il medico è in turno per poche ore, magari non è lo stesso che ha posizionato il presidio, e rinvia la decisione al collega di guardia. L’urologo, l’infettivologo, il chirurgo o il rianimatore intervengono solo su richiesta. Intanto, il paziente resta cateterizzato. Ogni giorno si sommano piccoli rinvii, incertezze, priorità maggiori. Il risultato è che nessuno rimuove il presidio perché tutti si aspettano che lo faccia qualcun altro.
Il problema si accentua nei contesti di lunga degenza, post-chirurgici o riabilitativi, dove la stabilità apparente del paziente porta a una riduzione dell’attenzione clinica. Se il paziente urina regolarmente attraverso il catetere vescicale, non si valutano le capacità residue di minzione spontanea. Se il drenaggio produce poco liquido, si lascia “ancora per sicurezza”. Se il catetere venoso non dà segni di infezione, si evita di cambiarlo. In alcuni casi, l’anziano allettato viene considerato “troppo fragile” per tornare a urinare spontaneamente, senza nemmeno tentare un trial di rimozione. Ma ogni giorno in più con un presidio in sede aumenta il rischio di infezioni, disagi, complicanze meccaniche e psicologiche.
L’infezione del tratto urinario associata a catetere vescicale è tra le più frequenti infezioni correlate all’assistenza. Eppure, nella pratica quotidiana, il catetere viene rimosso solo in caso di febbre, ematuria, o blocco urinario. Raramente si programma una rimozione precoce in assenza di segni. Lo stesso vale per i cateteri centrali: trombosi, flebiti, infezioni da germi multiresistenti sono tutte complicanze evitabili con una strategia di uso minimo indispensabile. Ma la cultura ospedaliera spesso privilegia la comodità gestionale alla prevenzione attiva. Un catetere facilita la gestione clinica, ma può mettere in pericolo la salute del paziente.
Un altro errore è non ascoltare il paziente, che spesso segnala fastidi, dolore, disagio, urgenza di urinare, perdite accanto al catetere, arrossamenti o difficoltà a muoversi. In molti casi, queste segnalazioni vengono archiviate come “normali” o gestite con presidi aggiuntivi (pannoloni, creme, paracetamolo), senza chiedersi se la vera soluzione non sia proprio togliere il dispositivo. Quando il paziente esprime il desiderio di provare a urinare da solo, o di muoversi senza drenaggio, spesso la risposta è: “vediamo domani”, “aspettiamo il parere del dottore”, “non è ancora il momento”. Ma quel momento, se non viene pianificato, rischia di non arrivare mai.
La documentazione clinica spesso non aiuta. Nelle cartelle elettroniche, la presenza di cateteri viene annotata all’inizio, ma non sempre aggiornata. Non esiste un campo obbligatorio che chieda ogni giorno: “il presidio è ancora necessario?” In assenza di un sistema informatizzato che ricordi, segua, chieda conto, tutto si affida alla memoria del singolo. I fogli clinici diventano cronache passive, non strumenti dinamici di gestione. E quando il problema si manifesta, si va a rileggere solo a posteriori per capire da quanto tempo il catetere era lì. Troppo tempo.
In alcuni contesti, la rimozione del catetere viene evitata per paura di doverlo riposizionare in caso di necessità. Si teme l’aggravamento del paziente, il rischio di ritenzione urinaria, la difficoltà a reinserire un accesso venoso, la possibilità di dover drenare di nuovo. Si preferisce quindi lasciare il presidio “ancora qualche giorno”. Ma spesso non si documenta né il motivo clinico, né si pianifica una rivalutazione. La paura prende il posto della decisione clinica. E nel frattempo, l’esposizione a complicanze aumenta in modo esponenziale.
Il problema si aggrava nei pazienti dimessi con catetere, senza un piano preciso per la rimozione. Molti pazienti tornano a casa o in RSA ancora cateterizzati, senza sapere quando e dove togliere il presidio. I medici di famiglia ricevono pazienti già compromessi, con infezioni in corso, con cateteri posizionati da settimane o mesi. Alcuni non hanno ricevuto alcuna istruzione, altri non sono stati neanche informati della possibilità di rimozione. In certi casi si crea una vera e propria “cateterizzazione cronica” non giustificata. E il paziente si abitua a vivere con un tubo, quando avrebbe potuto vivere senza.
Dal punto di vista medico-legale, il ritardo nella rimozione dei cateteri è considerato un errore per omissione, una negligenza gestionale che può avere conseguenze gravi. Infezioni, sepsi, stenosi, disautonomie, perdite funzionali, danni psicologici: ogni evento legato alla permanenza non necessaria del presidio è potenzialmente evitabile. E in caso di danno, la responsabilità viene spesso attribuita alla struttura per mancata vigilanza, assenza di protocolli, mancata rivalutazione clinica. Non serve che il presidio sia difettoso: basta che sia rimasto quando non serviva più.
In conclusione, la rimozione dei cateteri è un atto medico a pieno titolo, non una semplice azione tecnica. Deve essere deciso, documentato, pianificato. Ogni giorno di permanenza di un presidio deve essere giustificato. Serve un cambiamento culturale, organizzativo, digitale. Serve che i sistemi ricordino, che i medici decidano, che gli infermieri partecipino, che i pazienti vengano ascoltati. Serve trasformare la domanda “serve ancora questo catetere?” in un riflesso automatico, non in una riflessione tardiva. Perché la rimozione ritardata di un presidio non è solo un dettaglio trascurato: è l’inizio silenzioso di una complicanza che nessuno voleva. Ma che tutti potevano prevenire.
Quando si configura la responsabilità medica per ritardo nella rimozione di cateteri?
L’utilizzo di cateteri in ambito clinico è una pratica indispensabile per il monitoraggio e la terapia di numerosi pazienti ospedalizzati. Cateteri venosi centrali, periferici, urinari, drenaggi addominali o toracici rappresentano strumenti salvavita nella fase acuta, ma il loro mantenimento prolungato oltre il tempo strettamente necessario espone il paziente a rischi gravi, evitabili e spesso sottovalutati. Quando la rimozione viene ritardata senza una motivazione clinica adeguata, e il paziente subisce un danno correlato, si configura una responsabilità medica pienamente accertabile.
Il principio guida nella gestione dei dispositivi invasivi è uno solo: devono essere rimossi non appena cessano le indicazioni cliniche alla loro permanenza. Ogni giorno di ritardo, ogni omissione di valutazione, ogni negligenza nel rivalutare la necessità del presidio aumenta il rischio di infezioni nosocomiali, trombosi, lesioni iatrogene, infiammazioni tissutali e perforazioni. Questi eventi, una volta instaurati, possono determinare sepsi, danni d’organo o degenze prolungate, con conseguenze rilevanti per il paziente e per la struttura sanitaria.
Il caso più emblematico è il catetere vescicale a permanenza. Utilizzato per monitoraggio della diuresi, in pazienti allettati, con ritenzione urinaria o durante il post-operatorio, diventa in breve tempo una delle principali fonti di infezione urinaria nosocomiale. I microrganismi colonizzano rapidamente la via di accesso, e più a lungo il catetere resta in situ, maggiore è il rischio di batteriuria, cistiti, pielonefriti, prostatiti, fino alla sepsi uroseptica. Se il catetere non viene rimosso quando non più necessario, e il paziente sviluppa una complicanza infettiva, la responsabilità è attribuibile alla mancata rivalutazione clinica.
Situazioni simili si verificano con i cateteri venosi centrali e periferici. Linee centrali mantenute oltre i 7-10 giorni senza reale necessità terapeutica aumentano il rischio di batteriemie a partenza dal punto di inserzione. Possono insorgere tromboflebiti, occlusioni del lume, infezioni fungine sistemiche. Se il presidio resta in sede per comodità, mancanza di alternative organizzative o semplice disattenzione, l’evento avverso non è un imprevisto, ma una conseguenza prevedibile.
Drenaggi chirurgici mantenuti oltre la finestra temporale raccomandata rappresentano un altro esempio frequente di errore clinico. In chirurgia addominale, toracica o ortopedica, il drenaggio ha una funzione specifica e limitata nel tempo: evacuare raccolte, prevenire fistole, ridurre gli ematomi. Quando la quantità drenata si riduce e non vi sono segni di infezione o raccolta residua, il presidio deve essere rimosso rapidamente. Il suo mantenimento oltre i 72-96 ore, in assenza di indicazione, aumenta il rischio di contaminazione batterica e dolore cronico. Se il paziente sviluppa un ascesso, una fistola o una sepsi locale, la responsabilità è attribuibile all’inerzia clinica.
Un altro caso riguarda i cateteri arteriosi per il monitoraggio emodinamico, spesso utilizzati nei reparti intensivi. La loro permanenza richiede sorveglianza continua. Il rischio di infezioni locali, ischemie distali, pseudoaneurismi o embolie è ben documentato. Se il paziente viene trasferito in reparto ordinario e il presidio non viene rimosso o rivalutato, si verifica un allungamento ingiustificato dell’esposizione al rischio, configurando una colpa nella condotta clinica.
La responsabilità non è esclusa nemmeno in assenza di danno conclamato. La giurisprudenza riconosce che anche l’esposizione a un rischio sanitario evitabile può generare un danno risarcibile, a titolo di violazione del diritto alla salute e alla corretta gestione terapeutica. In altre parole, un paziente può agire legalmente anche se non ha sviluppato una sepsi, ma è stato costretto a sopportare per giorni o settimane un presidio invasivo non più necessario.
L’elemento chiave nella configurazione della responsabilità è la documentazione clinica. Ogni dispositivo invasivo deve essere registrato, con data di inserzione, motivo clinico, programma di rivalutazione, e decisione sulla rimozione. La cartella deve contenere indicazioni esplicite: chi ha prescritto il mantenimento, quando è stata fatta l’ultima valutazione, quali parametri clinici hanno motivato la prosecuzione. L’assenza di tali informazioni equivale, nei fatti, a una mancanza di gestione.
In molti contenziosi, le difese si fondano sulla presunta “routine” assistenziale. Ma nella medicina moderna, la routine non può giustificare la trascuratezza. Non basta dire che “il catetere è rimasto perché tutti i pazienti lo tengono”. Ogni scelta deve essere individualizzata, motivata, tracciata. E ogni presidio deve avere una data prevista di rimozione. Se non vi è una nota esplicita, la condotta viene considerata omissiva.
Anche la responsabilità organizzativa è rilevante. Se l’ospedale non dispone di protocolli aggiornati per la gestione dei cateteri, se manca la formazione periodica del personale, se non esiste un sistema di allerta per dispositivi mantenuti oltre i limiti, la colpa si estende alla direzione sanitaria. Le linee guida internazionali suggeriscono l’uso di “catheter removal checklists” e di sistemi elettronici per il monitoraggio della durata dei presidi.
La formazione degli operatori è uno dei cardini della prevenzione. Ogni medico e infermiere deve sapere quando un catetere può essere rimosso, deve conoscere i rischi associati alla sua permanenza e deve sentirsi responsabile della sorveglianza. L’errore più frequente è “scordarsi” del catetere. Ma ogni presidio dimenticato è un rischio che cresce.
Il paziente deve essere informato. Anche quando in condizioni di fragilità, il paziente o i familiari devono sapere che la presenza del catetere è temporanea e soggetta a revisione. In caso di dolore, fastidio, febbre o arrossamento locale, devono essere istruiti a segnalare immediatamente i sintomi. Il silenzio del paziente non può giustificare l’omissione del medico.
In conclusione, la responsabilità medica per ritardo nella rimozione di cateteri si configura ogniqualvolta un presidio invasivo viene mantenuto oltre il necessario, senza motivazione clinica documentata, e da ciò derivi un danno o un’esposizione non giustificata al rischio. È una responsabilità che nasce da omissioni ripetute, da trascuratezza gestionale, da scarsa comunicazione tra i membri dell’équipe.
Ogni giorno in più con un catetere inutile è un giorno in più di pericolo. Ogni infezione evitabile è una ferita doppia: al corpo e alla fiducia del paziente. Ogni presidio trascurato è un gesto in meno di cura. Perché nella medicina responsabile, togliere un catetere al momento giusto è tanto importante quanto averlo messo nel momento giusto. E non farlo, è un errore che si vede dopo — ma si decide prima.
Quali sono le norme applicabili?
- Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017) sulla responsabilità sanitaria e sicurezza delle cure;
- Art. 2043 c.c., danno da fatto illecito;
- Art. 2236 c.c., colpa tecnica del professionista sanitario;
- Art. 590 c.p., lesioni personali colpose da errore sanitario;
- Linee guida internazionali CDC e WHO, recepite in Italia fino al 2025.
Quali risarcimenti sono stati riconosciuti in Italia?
- Donna con infezione sistemica da catetere vescicale lasciato oltre 15 giorni: risarcimento di 1.500.000 euro;
- Paziente oncologico con CVC non rimosso nonostante infezione locale e trombosi: risarcimento di 1.800.000 euro;
- Uomo anziano con calcolo vescicale e stenosi da catetere prolungato: risarcimento di 1.350.000 euro.
A chi rivolgersi per ottenere giustizia?
In caso di complicanze da rimozione tardiva di cateteri, è fondamentale rivolgersi a avvocati con competenze specifiche in responsabilità sanitaria per omissioni assistenziali e infezioni nosocomiali. La tutela prevede:
- Analisi della cartella clinica e della documentazione di gestione del presidio;
- Verifica della presenza di piani assistenziali personalizzati e loro aggiornamento;
- Collaborazione con infettivologi, medici legali, urologi o chirurghi;
- Dimostrazione del nesso causale tra ritardo e danno subito;
- Azione risarcitoria completa per danno biologico, morale e patrimoniale.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità operano con specialisti in infezioni ospedaliere, medicina legale e assistenza infermieristica, garantendo una tutela accurata, documentata e fondata sui più recenti standard clinici e giuridici.
Quando un presidio salvavita diventa causa di danno per negligenza nella rimozione, è doveroso agire legalmente per tutelare il proprio diritto alla salute.
Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici: