Introduzione
Le infezioni batteriche urologiche rappresentano una categoria molto frequente nella pratica clinica. Rientrano in questo ambito la cistite, la pielonefrite, la prostatite, l’epididimite e l’orchite, ma anche complicazioni più gravi come l’ascesso renale o la sepsi uroseptica. Quando diagnosticate precocemente e curate in modo corretto, queste infezioni hanno un decorso generalmente favorevole.

Tuttavia, quando la diagnosi è errata o ritardata, oppure viene prescritto un antibiotico inefficace o non indicato, si può assistere a un rapido peggioramento clinico, fino a situazioni di danno permanente a rene, prostata, testicoli o vie urinarie.
Secondo i dati del Ministero della Salute 2024, oltre il 10% dei ricoveri per infezione urologica grave derivano da diagnosi iniziali scorrette o superficiali. In questi casi, se il ritardo diagnostico o la terapia inappropriata causano lesioni evitabili, la legge riconosce la responsabilità medica e dà diritto al risarcimento.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali sono le principali infezioni urologiche?
Le infezioni batteriche dell’apparato urinario e genitale comprendono:
- Cistite (infezione vescicale),
- Pielonefrite (infezione renale),
- Prostatite acuta o cronica,
- Uretrite,
- Epididimite e orchite,
- Infezioni urinarie ricorrenti,
- Sepsi urologica da ostruzione o ritenzione urinaria.
Come si diagnosticano correttamente?
La diagnosi deve sempre partire da:
- esame delle urine con urinocoltura,
- emocromo e PCR,
- ecografia renale o scrotale, se necessario,
- valutazione dei sintomi (disuria, febbre, dolore pelvico o lombare),
- in casi complessi: TAC o risonanza magnetica.
La terapia deve essere mirata in base al tipo di batterio isolato e alle eventuali resistenze antibiotiche.
Quali sono le cause più frequenti degli errori e delle complicanze in caso di errata diagnosi di un’infezione batterica urologica?
Le infezioni delle vie urinarie rappresentano una delle patologie più comuni nella pratica clinica, sia in ambito ambulatoriale che ospedaliero. Riguardano pazienti di ogni età e sesso, ma assumono caratteristiche particolarmente delicate nei soggetti anziani, immunodepressi, portatori di catetere, diabetici o con patologie urologiche sottostanti. L’errata diagnosi di un’infezione batterica urologica, o la sua sottovalutazione, può trasformare un disturbo facilmente gestibile in una condizione grave, invalidante o perfino fatale, specie se evolve in pielonefrite, urosepsi o ascessi.
Una delle cause più frequenti di errore diagnostico è la mancata valutazione dei sintomi atipici, soprattutto nei soggetti fragili. Nelle persone anziane, l’infezione urinaria può non presentarsi con sintomi classici come bruciore, urgenza o pollachiuria, ma con manifestazioni confuse: stato confusionale, febbre non spiegata, ipotensione, malessere generale. Se il medico non sospetta una causa urologica e non richiede esami delle urine, urinocoltura e indagini del tratto urinario, l’infezione progredisce indisturbata, con conseguenze potenzialmente drammatiche.
In altri casi, l’errore consiste nell’attribuire i sintomi urinari a patologie non infettive, come la prostatite abatterica, la cistite interstiziale, il dolore pelvico cronico o l’ipertrofia prostatica. Quando si esclude a priori l’origine batterica, non si avvia alcun trattamento antibiotico né si effettua la coltura urinaria, e ciò porta a una cronicizzazione dell’infezione o alla sua evoluzione in forme resistenti.
Una criticità molto rilevante è l’utilizzo improprio degli antibiotici, basato su ipotesi anziché su dati microbiologici. In molti casi, si somministrano antibiotici ad ampio spettro senza attendere l’esito dell’urinocoltura, oppure si sospende la terapia prima della fine del ciclo. Questo atteggiamento non solo può risultare inefficace se il batterio è resistente, ma contribuisce alla selezione di ceppi multi-resistenti, rendendo sempre più difficile la gestione delle infezioni urinarie nosocomiali o ricorrenti.
Particolarmente pericoloso è l’errore nel valutare la gravità dell’infezione. Una semplice infezione urinaria può trasformarsi in pielonefrite acuta, con febbre elevata, dolore lombare, nausea, tachicardia. Se i segni clinici vengono minimizzati o trattati con terapia domiciliare senza sorveglianza, il paziente può sviluppare una urosepsi, condizione che richiede ricovero, antibiotici endovena e spesso supporto rianimatorio. Il ritardo nel riconoscere questa evoluzione è tra gli errori più gravi.
Non mancano i casi in cui il medico non riconosce un’infezione secondaria a un’ostruzione urinaria, come nel caso di calcoli, tumori vescicali o ipertrofia prostatica. L’infezione in presenza di stasi urinaria non può essere eradicata con i soli antibiotici. In questi pazienti, il mancato svuotamento della vescica o la mancata rimozione dell’ostacolo porta a infezioni ricorrenti, pielonefrite cronica, deterioramento renale e aumento del rischio settico. L’esame ecografico o la visita urologica devono far parte della valutazione di ogni paziente con infezioni urinarie ripetute.
Un errore spesso sottovalutato riguarda l’errata interpretazione degli esami di laboratorio. In alcuni casi, l’urinocoltura può risultare negativa per motivi tecnici, o perché eseguita in modo scorretto (es. contaminazione, campione raccolto dopo inizio di terapia antibiotica). Il medico, vedendo l’esito negativo, può decidere di non trattare, ignorando i sintomi persistenti. In altri casi, si ignorano valori ematochimici come la PCR, la procalcitonina, la creatinina alterata, che sono indicatori indiretti della severità dell’infezione.
Esistono poi situazioni particolari, come l’infezione in pazienti portatori di catetere vescicale o stent ureterale, dove i segni sono spesso subdoli. In questi casi, la colonizzazione cronica della via urinaria rende più difficile interpretare i dati e scegliere l’antibiotico più adatto. Tuttavia, la mancata gestione del biofilm, la sostituzione tardiva del catetere o la mancata terapia in presenza di febbre o segni sistemici sono errori che espongono il paziente a infezioni gravi e complicanze renali.
Dal punto di vista medico-legale, l’errata diagnosi o la sottovalutazione di un’infezione batterica urologica è una delle cause più frequenti di contenzioso in medicina generale, pronto soccorso e geriatria. I periti valutano se il paziente è stato ascoltato con attenzione, se sono stati prescritti gli esami corretti, se l’antibiotico era indicato, se l’infezione poteva essere evitata con una gestione diversa o se il decorso peggiorativo era prevedibile. Nei casi in cui l’errore diagnostico ha causato una sepsi, un ricovero in terapia intensiva, un danno renale acuto o la morte, la responsabilità professionale è concreta e difficilmente contestabile.
Il risarcimento varia a seconda delle conseguenze: danni temporanei, invalidità permanente, perdita di funzione renale, ricoveri prolungati, danno biologico, morale e da perdita di chance. In alcuni casi, la mancata diagnosi ha comportato l’aggravamento di patologie oncologiche sottostanti, ritardando interventi chirurgici necessari. Anche questo viene valutato ai fini del risarcimento.
Le linee guida internazionali raccomandano che ogni sintomo urinario sospetto venga indagato con esame urine, urinocoltura, valutazione della funzione renale ed eventuali esami per immagini. La scelta dell’antibiotico deve essere mirata, la durata della terapia rispettata, e il paziente deve essere rivalutato nei giorni successivi. Ogni ritardo è pericoloso, ogni sottovalutazione può trasformarsi in un danno evitabile.
In definitiva, le cause più frequenti degli errori e delle complicanze in caso di errata diagnosi di un’infezione batterica urologica sono: sintomi atipici non riconosciuti, uso improprio di antibiotici, mancata urinocoltura, ignoranza delle complicanze possibili, scarsa conoscenza delle patologie sottostanti, ritardi nella diagnostica, cattiva interpretazione degli esami, gestione superficiale di pazienti fragili. Errori gravi, ma spesso evitabili. Perché un’infezione urinaria può iniziare con un fastidio, ma finire in rianimazione. E ogni errore in quel percorso è un’occasione persa per salvare.
Quando si configura la responsabilità medica per necrosi scrotale post-chirurgica?
La responsabilità medica per necrosi scrotale post-chirurgica si configura ogni volta che, in seguito a un intervento nella regione inguino-scrotale, il paziente sviluppa una lesione tissutale grave, estesa e progressiva, che compromette l’integrità dello scroto per una cattiva esecuzione dell’intervento, una gestione post-operatoria inadeguata o un mancato riconoscimento tempestivo delle complicanze. È uno degli esiti più devastanti nella chirurgia uro-genitale maschile: perché coinvolge la pelle, i tessuti molli, la vascolarizzazione, ma soprattutto l’identità e la dignità di chi subisce un simile danno.
La necrosi scrotale non è mai un effetto secondario banale. È il risultato finale di un processo infettivo, ischemico o traumatico che si è evoluto senza freni. In alcuni casi si verifica per una cattiva vascolarizzazione dei lembi chirurgici dopo un’orchiectomia, una plastica scrotale, una correzione di idrocele o varicocele. In altri, è l’effetto di un’infezione trascurata, di una ferita che non guarisce, di punti troppo serrati che comprimono i vasi, di ematomi non drenati che diventano sede di proliferazione batterica. Ma sempre, quando la necrosi compare, la domanda è una: si poteva evitare?
Molti pazienti riferiscono una sensazione iniziale di disagio. Una tensione della pelle, un arrossamento anomalo, un dolore che aumenta invece di calare. Tornano a farsi visitare. Qualcuno li tranquillizza. Altri ricevono solo antibiotici. Nessuno, in quei primi giorni cruciali, solleva l’ipotesi che ci sia un processo necrotico in atto. E così la lesione cresce. La pelle si scurisce, si ammorbidisce, emana odore. La cute cede, si apre, diventa una ferita aperta, maleodorante, profonda. Quando finalmente viene riconosciuta, è troppo tardi. Serve un secondo intervento. Serve un debridement chirurgico, l’asportazione del tessuto morto, magari anche un trapianto cutaneo. E resta una cicatrice che il paziente vedrà ogni giorno della sua vita.
In altri casi, la necrosi scrotale è l’esito di una tecnica errata: lembi tirati male, chiusure innaturali, ischemie chirurgiche da clippaggio eccessivo. Oppure viene causata da errori nella profilassi antibiotica. Alcuni pazienti, immunodepressi o con diabete, non vengono monitorati con la dovuta attenzione. Altri sono dimessi troppo in fretta, senza indicazioni precise su cosa osservare, su quali segnali allarmanti riferire. E il corpo comincia a spegnersi proprio lì dove più avrebbe dovuto guarire.
Dal punto di vista medico-legale, la responsabilità si configura ogni volta che si dimostra che la necrosi era evitabile, o che, una volta insorta, non è stata diagnosticata e trattata in tempo. Il decorso post-operatorio è parte integrante della prestazione sanitaria. Non basta operare bene in sala: bisogna accompagnare la guarigione. Se il paziente ha segnalato dolore, febbre, alterazioni locali e non è stato visitato, se non sono stati prescritti esami, se la terapia è stata inadeguata o la visita di controllo troppo superficiale, la colpa è reale. E il danno è tangibile.
La necrosi scrotale lascia segni profondi, non solo sul corpo. I pazienti che ne hanno sofferto raccontano un senso di smarrimento, di vergogna, di isolamento. Alcuni si rifiutano di mostrarsi anche al partner. Altri sviluppano ansia, depressione, perdita del desiderio sessuale. Non è solo un problema estetico. È un crollo della percezione del proprio valore. Un uomo che si guarda e non si riconosce più. Che si sente mutilato, anche se il testicolo è ancora lì. Perché ciò che manca è la pelle. È l’aspetto. È la serenità.
Il risarcimento per necrosi scrotale post-chirurgica può essere molto elevato, specialmente nei casi con necessità di innesti, perdita funzionale, dolore cronico o complicanze infettive gravi. Si considera il danno biologico permanente, il danno estetico, il danno morale, le spese sostenute e il danno alla vita di relazione. Nei casi peggiori, se la necrosi si estende fino a coinvolgere entrambi i testicoli, o causa infezioni sistemiche, il danno può essere valutato con percentuali superiori al 30%, e i risarcimenti possono superare i 150.000 euro. Se il paziente è giovane, attivo, con vita sessuale e lavorativa piena, l’impatto è ancora maggiore.
Il termine per agire è di cinque anni dalla scoperta del danno, oppure dieci se si tratta di struttura pubblica. È importante raccogliere tutta la documentazione clinica: cartella operatoria, diario post-operatorio, prescrizioni, fotografie cliniche, referti dei re-interventi, relazioni specialistiche dermatologiche e andrologiche. Una consulenza medico-legale è spesso necessaria per ricostruire l’origine della necrosi, i tempi della diagnosi, la correttezza delle cure ricevute.
Per il medico, ogni intervento nella zona scrotale comporta una responsabilità precisa. Non è una zona qualsiasi. È un’area simbolica, delicata, esposta. E una complicanza qui non può essere trattata come inevitabile. Deve essere prevista, prevenuta, gestita con tempestività. Quando il tessuto muore, è perché qualcosa – o qualcuno – ha smesso di curarlo.
In conclusione, la responsabilità medica per necrosi scrotale post-chirurgica si configura ogni volta che un paziente si ritrova con una ferita al posto della guarigione promessa. La medicina non può nascondersi dietro al “può succedere”. Perché succede solo quando si sbaglia. E chi ha perso un pezzo della propria integrità ha diritto a qualcosa di più di un rimborso: ha diritto a giustizia.
Cosa prevede la legge in questi casi?
La legge italiana tutela il paziente attraverso:
- Art. 1218 c.c. – responsabilità contrattuale della struttura sanitaria,
- Art. 2043 c.c. – responsabilità extracontrattuale del medico,
- Legge Gelli-Bianco n. 24/2017 – obbligo di adozione di linee guida appropriate,
- Art. 590 c.p. – lesioni personali colpose,
- Art. 589 c.p. – omicidio colposo, in caso di decesso,
- Legge 219/2017 – diritto all’informazione e al consenso consapevole.
Quali danni sono risarcibili?
- Danno biologico permanente (perdita renale, orchiectomia, sequele neurologiche),
- Danno estetico (cicatrici, sacca urinaria),
- Danno morale (paura, sofferenza, angoscia),
- Danno esistenziale (limitazioni nella vita sessuale, relazionale, professionale),
- Danno patrimoniale (terapie, visite, esami, invalidità, assenza dal lavoro).
Quali sono esempi concreti di risarcimento?
- Torino, 2024: paziente con pielonefrite non diagnosticata. Perdita del rene sinistro. Risarcimento: €980.000.
- Bari, 2023: prostatite acuta non riconosciuta. Ascesso prostatico, infertilità e danno erettile. Risarcimento: €870.000.
- Milano, 2022: giovane con epididimite trascurata. Necrosi del testicolo e asportazione. Risarcimento: €920.000.
Come si dimostra la responsabilità medica?
È necessaria:
- acquisizione della documentazione clinica completa,
- verifica di esami prescritti, tempi di diagnosi, esiti dell’urinocoltura,
- analisi della terapia antibiotica somministrata,
- perizia medico-legale urologica,
- dimostrazione del nesso causale tra l’errore e il danno subito.
Qual è la procedura per ottenere il risarcimento?
- Richiesta della cartella clinica alla struttura coinvolta,
- Consulenza medico-legale con specialisti in urologia e malasanità,
- Quantificazione del danno biologico, morale, patrimoniale e relazionale,
- Avvio della mediazione obbligatoria,
- Se fallisce: azione legale civile (e, nei casi gravi, penale).
Quali sono i termini per agire?
- 10 anni per agire contro la struttura sanitaria (responsabilità contrattuale),
- 5 anni contro il medico (extracontrattuale),
- 6 anni in ambito penale per lesioni, fino a 12 anni in caso di decesso,
- decorrenza: dal momento della consapevolezza del danno e del suo collegamento all’errore medico.
Perché rivolgersi agli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità?
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità sono specializzati nei danni da errori diagnostici e terapeutici in ambito urologico, e si occupano in particolare di:
- infezioni urinarie mal diagnosticate o trattate in modo errato,
- sepsi urologiche da trascuratezza clinica,
- danni a carico di reni, prostata o testicoli per ritardo terapeutico,
- infertilità e invalidità permanente derivanti da infezioni batteriche non curate.
Il team lavora con:
- urologi forensi,
- infettivologi esperti in danno iatrogeno,
- psicologi e sessuologi clinici,
- medici legali ed economisti forensi per il calcolo del danno complessivo.
Quando un’infezione curabile viene sottovalutata e lascia danni per sempre, la giustizia deve intervenire con decisione. Il diritto tutela la salute, la dignità e la vita.
Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici: