Rottura Di Vena Durante Un Accesso Venoso E Risarcimento Danni

L’accesso venoso è una procedura comune e apparentemente semplice, eseguita quotidianamente in ospedale per la somministrazione di farmaci, fluidi, nutrizione parenterale o prelievi ematici. Tuttavia, come ogni procedura medica, anche questa comporta rischi tecnici, soprattutto se eseguita con imperizia o in condizioni cliniche critiche.

La rottura di una vena durante un accesso venoso può provocare ematomi profondi, lesioni nervose, sindromi compartimentali, necrosi tissutale, trombosi, infezioni e, nei casi più gravi, gravi disabilità o decessi. Se il danno è evitabile e causato da errore tecnico o negligenza, il paziente ha diritto a un risarcimento per malasanità.

Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.

Quali sono le cause più comuni della rottura di una vena durante un accesso venoso, quando imputabile a colpa medica?

L’accesso venoso è una delle procedure più frequenti in ambito sanitario, indispensabile per la somministrazione di farmaci, liquidi, nutrizione parenterale, emotrasfusioni e per il monitoraggio emodinamico. Viene eseguito quotidianamente da medici e infermieri, tanto in contesti di routine quanto in emergenze. Tuttavia, la sua apparente semplicità può ingannare: un gesto tecnico solo in apparenza banale nasconde margini di rischio significativi, specialmente quando si verifica la rottura della vena. In alcuni casi, questa complicanza è dovuta a condizioni cliniche del paziente difficili da controllare; in altri, invece, è imputabile a errori procedurali, negligenza o scarsa competenza tecnica.

Una delle cause principali è l’inserimento dell’ago o del catetere con eccessiva forza o angolazione errata. Le vene periferiche, soprattutto negli anziani, nei pazienti oncologici o disidratati, sono spesso fragili, sottili e poco visibili. Se l’operatore non calibra correttamente la pressione durante l’infissione dell’ago, o se lo spinge troppo in profondità oltre la parete posteriore della vena, il risultato può essere la perforazione completa e la successiva rottura della parete venosa.

Un errore tecnico frequente è l’eccessiva manipolazione della vena durante il tentativo di reperimento. In alcuni casi, il medico o l’infermiere esegue manovre ripetute di “palpazione profonda” o torsione del braccio, tentando di rendere visibile un vaso difficile. Queste azioni, se troppo aggressive o ripetute, possono danneggiare la parete venosa o favorire la formazione di ematomi e rotture anche prima dell’inserimento dell’ago.

L’uso improprio di aghi o cateteri non adatti al calibro del vaso è un’altra causa documentata di rottura venosa. L’utilizzo di un ago troppo grande su una vena piccola o fragile, o l’introduzione di un catetere rigido in un punto inappropriato, aumenta il rischio di danneggiamento meccanico. La scelta del materiale deve sempre essere personalizzata, basata sull’anamnesi vascolare del paziente, sulla finalità dell’accesso e sul tipo di terapia prevista. Non farlo equivale a una valutazione superficiale del rischio.

Nei pazienti pediatrici o con patologie croniche, il rischio è ancora maggiore. I bambini, i neonati, i pazienti in chemioterapia o quelli con malattie autoimmuni spesso presentano vene più sottili, facilmente collassabili o già danneggiate da accessi precedenti. In questi casi, tentativi multipli di cannulazione possono aumentare esponenzialmente il rischio di rottura venosa, soprattutto se non condotti con strumenti pediatrici dedicati e da personale con esperienza.

Anche il tentativo di reperire accessi venosi in emergenza, in condizioni ambientali critiche o senza ausili tecnici (come l’ecoguida), è un fattore di rischio. In urgenza, quando il tempo è limitato e il paziente è instabile, l’operatore può agire in fretta, con scarsa visibilità, senza un punto di repere certo. Se la vena non è palpabile, e non si utilizza l’ecografia per guidare l’inserimento, il margine di errore aumenta sensibilmente.

L’errata valutazione del sito di puntura rappresenta un’altra causa di rottura venosa. Le vene del dorso della mano, del polso o del piede sono più superficiali ma anche più soggette a danno meccanico. Utilizzare queste sedi in pazienti agitati, obesi o con turgore venoso ridotto può portare facilmente a una perforazione. Anche in presenza di vene visibili, la parete può essere friabile e non sopportare la pressione del flusso o della semplice infusione salina.

La mancata immobilizzazione dell’arto durante e dopo la procedura può provocare il movimento del catetere con successiva lacerazione della parete venosa. Se il catetere viene inserito correttamente ma poi lasciato senza fissaggio, o il paziente muove ripetutamente il braccio, si può generare uno stravaso e quindi la rottura della vena, anche a distanza di ore dall’inserimento.

Un’altra causa da non sottovalutare è l’insufficiente formazione pratica del personale. Un operatore inesperto o non addestrato a lavorare in condizioni complesse, può non saper riconoscere la resistenza anomala durante l’infissione, ignorare la sensazione tattile di “entrata in vena” o non comprendere i segnali di stravaso precoce. L’accesso venoso richiede competenza tecnica, ma anche sensibilità clinica e attenzione ai dettagli.

Le conseguenze della rottura venosa possono variare da minori a gravissime. Si passa da un semplice ematoma locale fino alla formazione di un vasto stravaso sottocutaneo, che può causare compressione nervosa, dolore severo, necrosi dei tessuti circostanti e, in casi estremi, sindrome compartimentale o infezioni da raccolta ematica non drenata. Nei pazienti con coagulopatie o in terapia anticoagulante, il rischio è amplificato e può rendere necessario un intervento chirurgico.

Dal punto di vista medico-legale, la rottura di una vena durante accesso venoso è giustificabile solo se avviene nonostante la corretta applicazione delle linee guida, l’adeguata valutazione del rischio e l’uso di strumenti idonei. Se invece si dimostra che il personale non ha rispettato le buone pratiche, ha agito con eccessiva fretta, non ha usato l’ecoguida dove era necessaria, o ha ignorato i segni di stravaso durante o dopo la procedura, la responsabilità è chiara.

Inoltre, la mancata documentazione dell’incidente o la sua sottovalutazione aggravano la posizione del professionista. Se dopo la rottura venosa non viene eseguito un controllo ecografico, non si annota la complicanza nella cartella clinica, o si prosegue con infusioni in un accesso chiaramente compromesso, si commette un errore secondario ancora più grave. Il paziente deve essere immediatamente informato, monitorato, e trasferito su altra via venosa, con segnalazione dell’accaduto.

La prevenzione è possibile e si basa su elementi noti: valutazione preprocedurale, scelta corretta del materiale, tecnica adeguata, uso dell’ecoguida nei casi difficili, formazione continua del personale e attenzione costante durante tutta la durata dell’accesso.

In conclusione, la rottura di una vena durante un accesso venoso può essere una complicanza gestibile se riconosciuta e trattata correttamente. Ma quando è causata da imperizia, strumenti inappropriati, mancanza di attenzione o superficialità operativa, non è più una complicanza: è un errore. Un errore che lascia un danno fisico, a volte permanente, ma sempre evitabile.

Ogni vena punta è una promessa di cura. Ogni ago spinto troppo oltre è un confine superato. Ogni accesso che si rompe è un gesto che poteva essere evitato, se solo si fosse fermata la mano un attimo prima. Perché anche l’accesso più semplice richiede rispetto. E il rispetto, in medicina, comincia sempre da lì: da un piccolo foro fatto bene. Non da una lesione fatta in fretta.

Quali sono le conseguenze della rottura venosa?

Le complicanze possono variare in gravità:

  • Ematoma esteso, dolore e gonfiore locale;
  • Trombosi venosa profonda, con rischio embolico;
  • Sindrome compartimentale per compressione vascolare e nervosa (emergenza chirurgica);
  • Necrosi dei tessuti molli per stravaso di farmaci tossici (es. chemioterapici);
  • Danni neurologici (per lesione dei nervi vicini o compressione da ematoma);
  • Sepsi, in caso di infezione locale o sistemica;
  • Interventi chirurgici urgenti di evacuazione ematoma, debridement o fasciotomia;
  • Invalidità permanente o perdita funzionale dell’arto coinvolto.

Quando si configura la responsabilità medica per rottura di vena durante un accesso venoso

La responsabilità medica per rottura di vena durante un accesso venoso si configura quando la manovra di incannulazione viene eseguita in modo tecnicamente scorretto, con eccessiva forza, con strumentazione inadeguata, oppure in pazienti ad alto rischio senza adottare le dovute precauzioni, provocando ematomi estesi, danni vascolari, compressioni nervose, necessità di intervento chirurgico o trombosi secondarie. L’accesso venoso è uno degli atti più comuni nella pratica clinica, ma anche uno di quelli più sottovalutati in termini di rischio. Quando il gesto diventa traumatico, la responsabilità non è della vena fragile, ma della tecnica errata.

L’errore può avvenire già nella scelta del sito. Se l’operatore sceglie una vena non adatta al tipo di infusione prevista — troppo piccola, tortuosa o già infiammata — il rischio di rottura aumenta. Nei pazienti oncologici, anziani, disidratati o con storia di accessi multipli, il patrimonio venoso è spesso compromesso. Se si procede senza valutare la situazione vascolare complessiva o senza usare strumenti come la venoscopia o l’ecografia, la manovra si trasforma in un tentativo alla cieca. E se la vena cede, il danno non è imprevedibile, ma anticipato dall’imprudenza.

Il secondo momento critico è la tecnica di inserzione. L’ago deve essere introdotto con un’angolazione corretta, evitando rotazioni brusche, pressioni eccessive o tentativi ripetuti nella stessa sede. Se l’operatore forza l’ingresso, spinge contro resistenza o ripete più volte il gesto ignorando il fallimento iniziale, la probabilità di lesionare la parete venosa o di causare una dissezione del vaso cresce notevolmente. Una vena non si rompe da sola: si rompe se viene trattata con troppa fretta, o con poca cura.

Anche la scelta del calibro del catetere è determinante. Inserire un ago troppo grande in una vena sottile aumenta il rischio di rottura, soprattutto in presenza di pareti assottigliate o fragilità vascolare congenita. Se non viene calibrata la dimensione in base al contesto clinico e alla morfologia del vaso, l’invasività della procedura non è più giustificabile. È sproporzionata.

Particolare attenzione merita l’accesso venoso centrale. Quando si esegue un catetere venoso centrale (CVC), ad esempio nella vena giugulare o succlavia, i rischi sono ancora più gravi. La rottura del vaso può comportare emorragie profonde, ematomi mediastinici, pneumotorace o emotorace. L’uso dell’ecoguida, oggi considerato standard in molte strutture, riduce drasticamente il rischio. Se il CVC viene inserito alla cieca, senza guida ecografica, e il paziente sviluppa una complicanza emorragica, la condotta è già fuori linea guida. E la responsabilità, pienamente configurabile.

Anche la fase post-procedurale è parte integrante della responsabilità. Se, dopo l’inserzione, il paziente riferisce dolore, gonfiore, formicolii, calo della perfusione o difficoltà di movimento, deve essere immediatamente rivalutato. Se questi sintomi vengono ignorati e il sanguinamento interno o l’emorragia progrediscono, aggravando il quadro clinico, la responsabilità è anche per mancato riconoscimento della complicanza.

Il danno può essere locale, con ecchimosi ed ematomi dolorosi, ma anche sistemico: sindromi compartimentali, compressione dei nervi, infezioni secondarie, perdita dell’uso dell’arto, interventi chirurgici di revisione vascolare o, nei casi peggiori, embolie o morte. Se il gesto era evitabile con una maggiore attenzione, con una tecnica più delicata o con l’uso di strumenti più adeguati, il nesso di causalità tra condotta ed evento è diretto. E il danno, risarcibile.

Un aspetto spesso trascurato è la documentazione. L’accesso venoso, come ogni procedura invasiva, deve essere registrato: sito, numero di tentativi, calibro, tipo di ago, eventuali difficoltà. Se non c’è alcuna nota sull’esecuzione, ma il paziente sviluppa un ematoma esteso o richiede un intervento correttivo, l’assenza di documentazione gioca contro il medico. Perché ciò che non è scritto, in medicina legale, è come se non fosse stato fatto.

Il consenso informato è fondamentale, anche per un atto apparentemente semplice. Al paziente deve essere spiegato che un accesso venoso, specie se profondo, comporta rischi. Non si tratta di firmare moduli precompilati, ma di ricevere informazioni proporzionate al contesto clinico. Nei casi in cui la rottura della vena comporta danni significativi, se il paziente non era stato adeguatamente informato, la mancanza di consenso si aggiunge alla responsabilità per imperizia o imprudenza.

Dal punto di vista medico-legale, la responsabilità si valuta analizzando l’intero percorso procedurale: scelta della vena, tecnica utilizzata, strumenti impiegati, competenza dell’operatore, sorveglianza post-manovra e gestione della complicanza. Le perizie verificano anche se il paziente era ad alto rischio, se erano disponibili alternative meno invasive, se è stata tentata una strategia più conservativa prima di procedere. Se si dimostra che un operatore diligente avrebbe evitato la lesione, la colpa è pienamente configurata.

Le conseguenze non sono solo fisiche. Il paziente che subisce una rottura vascolare può sviluppare ansia, paura verso future manovre mediche, limitazioni funzionali, dolore cronico o bisogno di trattamenti invasivi aggiuntivi. La perdita di fiducia nella struttura e nei professionisti è spesso irreversibile. Quando un gesto di routine si trasforma in un problema permanente, il paziente non dimentica. E la medicina deve rispondere.

L’accesso venoso è una delle prime manovre a cui si sottopone un paziente ospedalizzato. Ed è anche uno dei momenti in cui la sicurezza deve essere massima. Perché l’ago può entrare in un istante, ma la sua errata traiettoria può lasciare un segno per tutta la vita. E quando quel segno era evitabile, la responsabilità non è una possibilità: è una certezza.

Quali sono le normative di riferimento?

  • Legge Gelli-Bianco (Legge n. 24/2017), sulla sicurezza delle cure e la responsabilità sanitaria;
  • Art. 2043 Codice Civile, per danno ingiusto da fatto illecito;
  • Art. 1218 e 1228 Codice Civile, per responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria;
  • Art. 2236 Codice Civile, per attività specialistiche complesse;
  • Art. 590 Codice Penale, per lesioni personali colpose da errore medico.

Quali sono gli esempi di risarcimento riconosciuto?

  • Paziente oncologico con rottura venosa e stravaso di chemioterapico, amputazione del braccio: risarcimento di 1.800.000 euro;
  • Ematoma da accesso venoso centrale non gestito, con paralisi del plesso brachiale: risarcimento di 1.450.000 euro;
  • Rottura di vena femorale con sindrome compartimentale e invalidità permanente: risarcimento di 1.300.000 euro;
  • Danno neurologico a un bambino dopo stravaso massivo in accesso periferico: risarcimento di 1.600.000 euro.

A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento?

Se hai subito un danno grave – o se un tuo familiare è stato colpito da complicanze evitabili durante un accesso venoso – è fondamentale:

  • Contattare un avvocato esperto in malasanità e responsabilità sanitaria in ambito infermieristico e vascolare;
  • Richiedere una perizia medico-legale, con il supporto di angiologi, chirurghi vascolari e neurologi forensi;
  • Raccogliere la documentazione: cartelle cliniche, referti, esami strumentali, lettere di dimissione, fotografie cliniche;
  • Dimostrare il nesso causale tra l’errore e il danno;
  • Avviare una procedura legale per ottenere il giusto risarcimento, che includa danno biologico, morale, patrimoniale ed esistenziale.

Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità operano con un team multidisciplinare per garantire una difesa tecnica, accurata e orientata al risultato.

Conclusione

L’accesso venoso deve essere una manovra sicura, rispettosa delle linee guida e della fragilità del paziente. Quando la rottura di una vena causa complicanze gravi per imprudenza o imperizia, il paziente ha pieno diritto a sapere la verità e ottenere giustizia.

Se sospetti di aver subito un danno da accesso venoso mal eseguito, non restare nel dubbio: agisci subito. La legge è dalla tua parte.

Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici:

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