L’infezione delle vie urinarie (IVU) è una delle patologie più comuni trattate in ambito ambulatoriale e ospedaliero. Tuttavia, quando non viene diagnosticata e trattata tempestivamente, può evolvere in una forma grave e potenzialmente letale: la sepsi urinaria. Quest’ultima rappresenta una complicanza sistemica dell’infezione, con diffusione batterica nel sangue e rischio di shock settico, insufficienza multiorgano e morte.
La mancata diagnosi di un’infezione urinaria che degenera in sepsi è una grave omissione sanitaria. I sintomi precoci – come febbre, brividi, dolore lombare, pollachiuria, disuria, stato confusionale o ipotensione – devono essere riconosciuti immediatamente, soprattutto nei pazienti fragili, anziani o con catetere vescicale.

Quando l’infezione non viene diagnosticata per tempo o viene sottovalutata, si configura una responsabilità medica. La legge consente al paziente (o ai familiari in caso di decesso) di agire per ottenere un risarcimento danni che tenga conto del danno biologico, morale, esistenziale, delle spese sanitarie e della perdita della capacità lavorativa.
In questo articolo approfondiremo le cause più comuni di mancata diagnosi di sepsi urinaria, le complicanze associate, le normative aggiornate al 2025, i casi risarciti in Italia e le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali sono i segnali iniziali dell’infezione urinaria complicata?
- Dolore o bruciore durante la minzione;
- Minzione frequente con urgenza e poca urina;
- Dolore al fianco o lombare, spesso mono-laterale;
- Febbre superiore ai 38°C, con brividi e sudorazione intensa;
- Stato confusionale nei pazienti anziani;
- Comparsa di sangue nelle urine (ematuria);
- Sensazione generale di malessere o stanchezza improvvisa.
Quali sono le cause più frequenti della mancata diagnosi di infezione urinaria evoluta in sepsi?
Ogni giorno, in ospedali, ambulatori e pronto soccorso, si presentano pazienti con febbre, malessere generale, astenia, dolore addominale, confusione mentale, difficoltà respiratoria. Sintomi generici, aspecifici, comuni a mille altre patologie. Ma in alcuni casi, sotto quella superficie poco definita, si nasconde un’infezione urinaria silente che sta già evolvendo verso la sepsi. Una condizione che, se riconosciuta e trattata in tempo, può essere gestita con successo. Ma che, se sottovalutata o trascurata, può trasformarsi rapidamente in una minaccia letale.
Una delle cause più frequenti della mancata diagnosi è l’aspecificità dei sintomi nelle prime fasi dell’infezione. Non sempre la cistite o la pielonefrite si presentano con dolore lombare o bruciore urinario. Soprattutto nei pazienti anziani, fragili o immunodepressi, i segni tipici possono essere assenti. Al loro posto, compaiono alterazioni dello stato di coscienza, sonnolenza, febbre non spiegata, cadute improvvise, disidratazione, stato confusionale. Se il clinico non ha un elevato indice di sospetto, può attribuire tutto a un peggioramento generale, a un’insufficienza cardiaca, a uno scompenso glicemico o a un decadimento cognitivo. E così l’infezione passa inosservata, mentre il quadro sistemico si complica.
Un altro errore frequente è la mancata esecuzione tempestiva degli esami di laboratorio e strumentali. In presenza di febbre o alterazioni cliniche, la semplice richiesta di esame delle urine, urinocoltura e PCR potrebbe orientare immediatamente la diagnosi. Ma se questi esami vengono omessi, o richiesti con ritardo, o se il risultato viene disponibile quando il paziente è già peggiorato, la diagnosi arriva tardi. L’ecografia renale, utile per escludere dilatazioni, ascessi o ostacoli meccanici, viene spesso rimandata. E il paziente, intanto, continua a peggiorare senza che nessuno abbia identificato la fonte dell’infezione.
In molti casi, l’errore nasce dalla sottovalutazione di una batteriuria sintomatica o di una cistite banale. Un paziente che riferisce bruciore urinario viene trattato con una terapia antibiotica “standard”, senza approfondimenti. Nessuno valuta se ci sia febbre, se ci sia coinvolgimento renale, se i parametri vitali siano alterati. Nessuno esclude la presenza di una pielonefrite, di una prostatite acuta, di una infezione ascendente che, in certe condizioni, può trasformarsi rapidamente in sepsi. Quando si considera l’infezione urinaria come qualcosa di sempre banale, si rischia di perdere le sue forme più pericolose.
L’uso indiscriminato di antibiotici senza antibiogramma è un altro elemento critico. Spesso vengono somministrate molecole ad ampio spettro senza sapere se siano efficaci per quel germe specifico. Se si tratta di un ceppo resistente – come un Escherichia coli ESBL, un Klebsiella multiresistente, un Enterococcus faecium – l’antibiotico non funziona e il paziente peggiora, mentre tutti pensano che stia già ricevendo una terapia. Senza una revisione della risposta clinica e senza l’attesa del risultato dell’urinocoltura, la falsa sicurezza del trattamento in atto può ritardare ulteriormente la diagnosi e l’intervento adeguato.
I pazienti portatori di catetere vescicale rappresentano un gruppo ad altissimo rischio. L’infezione può svilupparsi lentamente, in modo subdolo, senza sintomi locali evidenti. La febbre viene attribuita ad altre cause. La presenza del catetere viene data per scontata. La sostituzione non viene fatta in tempo. Nessuno ispeziona il meato uretrale, nessuno osserva le urine in sacca. In molti casi, la diagnosi arriva solo quando il paziente sviluppa alterazioni emodinamiche, tachicardia, ipotensione, respiro affannoso. Ma a quel punto la sepsi è già in atto e l’origine urinaria viene scoperta solo con ritardo.
Nei pazienti anziani o non autosufficienti, la sintomatologia tipica può essere completamente assente. Nessuno riferisce dolore, nessuno si lamenta di bruciore. Ma la frequenza cardiaca aumenta, la pressione si abbassa, compare letargia. In queste situazioni, se non si mantiene un’attenzione costante ai piccoli segni di infezione – come un lieve aumento della temperatura, un’urina torbida o maleodorante, un cambiamento nel comportamento – la diagnosi viene posticipata. E quando si arriva a pensare all’origine infettiva, l’organo bersaglio non è più la vescica ma il cuore, il cervello, i polmoni.
La comunicazione tra reparti e tra professionisti è spesso frammentaria. Un paziente viene spostato dal pronto soccorso alla medicina, o dalla chirurgia alla riabilitazione, senza che nessuno abbia davvero approfondito il suo stato infettivo. Si danno per buoni parametri parziali. Nessuno aggiorna le prescrizioni. Nessuno verifica se l’antibiotico sia stato iniziato, cambiato, sospeso. E la responsabilità dell’approfondimento passa da un medico all’altro, finché non c’è più tempo per intervenire. Quando la febbre ritorna, si scopre che quella infezione non era mai stata affrontata davvero.
Un’altra causa è l’assenza di una cultura della sepsi urinaria come entità specifica e temibile. Mentre la sepsi da polmonite, da addome acuto, da ferita chirurgica viene riconosciuta e temuta, quella da infezione urinaria viene spesso trascurata. Eppure, i dati epidemiologici mostrano che una quota significativa di sepsi ospedaliere nasce da infezioni del tratto urinario non trattate o sottovalutate. Quando la sepsi si manifesta, non importa quale fosse l’organo di partenza: il sistema è già compromesso. E ogni minuto perso riduce le possibilità di sopravvivenza.
Dal punto di vista medico-legale, la mancata diagnosi di sepsi da infezione urinaria è un errore grave e spesso sanzionato. Se ci sono segni clinici ignorati, esami non eseguiti, terapie inadeguate, ritardi documentabili, la responsabilità professionale è facilmente accertabile. Il paziente che poteva essere salvato con un antibiotico mirato e una semplice idratazione diventa invece una vittima di un’infezione evitabile. I giudici guardano la cronologia degli eventi: quando è comparsa la febbre? Quando è stato fatto l’esame delle urine? Quando è stato richiesto il consulto infettivologico? E spesso scoprono che la risposta a queste domande è: troppo tardi.
In conclusione, un’infezione urinaria può sembrare un problema minore, ma può evolvere in modo rapido e devastante. Serve attenzione ai sintomi lievi, uso appropriato degli esami, vigilanza continua nei pazienti fragili, rivalutazione tempestiva delle risposte cliniche, conoscenza delle resistenze batteriche, capacità di agire subito. La sepsi non aspetta. Si insinua lentamente e poi accelera. E se la diagnosi arriva dopo, anche la terapia giusta può non bastare. Ogni paziente con febbre inspiegata è un campanello d’allarme. E ogni vescica non ascoltata è un rischio che cresce nel silenzio.
Quando si configura la responsabilità medica per mancata diagnosi di infezione urinaria evoluta in sepsi?
L’infezione delle vie urinarie rappresenta una delle più comuni patologie infettive, soprattutto nei soggetti fragili, negli anziani, nei pazienti ospedalizzati e in quelli portatori di catetere. Nella maggior parte dei casi si tratta di un’infezione circoscritta, ben riconoscibile e facilmente trattabile. Tuttavia, in alcuni pazienti può evolvere rapidamente in sepsi urinaria, una forma grave di infezione sistemica che richiede un trattamento tempestivo e aggressivo. Quando questa evoluzione non viene riconosciuta per tempo, e il paziente subisce un peggioramento clinico grave o letale, si configura una responsabilità medica precisa, legata a un ritardo diagnostico evitabile.
La diagnosi precoce è fondamentale. Il passaggio da un’infezione urinaria a una sepsi non è istantaneo, ma progressivo, e si manifesta con segni clinici ben noti: febbre elevata, brividi, tachicardia, ipotensione, oliguria, stato confusionale, aumento della PCR e della procalcitonina. A questi si aggiungono i classici sintomi urinari come disuria, pollachiuria, urgenza minzionale, dolore sovrapubico o lombare, urine torbide e maleodoranti. In un paziente con fattori di rischio – età avanzata, diabete, immunosoppressione, presenza di catetere vescicale – questi segni devono far scattare immediatamente un sospetto clinico di sepsi urinaria.
L’errore medico più grave consiste nel sottovalutare i primi sintomi e nel non procedere a una valutazione laboratoristica e strumentale adeguata. Se un paziente con febbre, dolore addominale o lombare, e alterazioni emodinamiche viene trattato solo con terapia sintomatica, senza eseguire esami delle urine, urinocoltura, emocromo, creatinina, funzionalità epatica, PCR e lattati ematici, il rischio di perdere una diagnosi di sepsi è elevato.
L’infezione urinaria può evolvere in sepsi in poche ore, e l’instaurarsi di uno shock settico comporta una mortalità significativamente elevata, soprattutto se il trattamento antibiotico appropriato non viene avviato entro la prima ora dalla diagnosi. Ritardare l’inizio della terapia, non eseguire un’ecografia renale in caso di sospetta pielonefrite ostruttiva, o non sospendere un catetere infetto sono omissioni che possono contribuire direttamente all’aggravamento irreversibile del quadro clinico.
Il paziente a rischio non è solo quello fragile, ma anche quello giovane con sintomi intensi. In soggetti con calcoli renali, malformazioni urologiche, reflusso vescico-ureterale o in trattamento immunosoppressivo, l’evoluzione verso la sepsi può essere rapidissima. Ignorare il dolore al fianco, trascurare la febbre ricorrente, non valutare l’eventuale ritenzione urinaria significa perdere la finestra di intervento utile per evitare complicanze gravi.
La responsabilità medica si configura quando vi è un ritardo nella diagnosi o nella presa in carico del sospetto clinico, in presenza di segni evidenti. Non basta dire che “la presentazione era atipica”: la medicina clinica richiede che ogni quadro febbrile venga esplorato con attenzione, soprattutto in soggetti con storia urologica o con presidi invasivi. La mancata richiesta di esami mirati (come emoculture, tampone uretrale, urinocoltura o TAC addome-pelvi) rappresenta una grave omissione, soprattutto in pronto soccorso.
La documentazione clinica ha un peso determinante. Se non vi è traccia di una valutazione urologica, se non sono presenti annotazioni sulla frequenza minzionale, sul colore delle urine, sull’eventuale cateterismo in atto, se non è stato richiesto l’esame delle urine o se il paziente è stato dimesso con diagnosi generica di “febbre di origine virale” senza terapia antibiotica, l’errore clinico appare evidente.
L’aspetto più grave emerge quando il paziente torna in ospedale in condizioni peggiorate, dopo una prima visita superficiale. Se il quadro infettivo era già in fase evolutiva e la sintomatologia non era stata indagata correttamente, la responsabilità è ancora più marcata. Il cosiddetto “ritorno in pronto soccorso dopo dimissione errata” è spesso la prova documentale di un errore iniziale. E in caso di morte, il nesso causale tra mancata diagnosi precoce e decesso per sepsi è fortemente sostenibile.
La giurisprudenza italiana ha già riconosciuto, in più casi, la colpa medica per mancata diagnosi tempestiva di infezioni urinarie evolute in sepsi. In particolare, sono stati condannati medici che hanno sottovalutato sintomi riferiti come “banali”, che hanno dimesso pazienti anziani con febbre persistente senza eseguire urinocoltura o emoculture, e che hanno iniziato terapie antibiotiche empiriche inappropriate, in assenza di un protocollo chiaro. Il principio affermato è che la sepsi non è un evento imprevedibile: è una complicanza annunciata se l’infezione iniziale viene ignorata.
La responsabilità può essere estesa anche all’équipe infermieristica e alla struttura. Se un paziente cateterizzato non viene sorvegliato, se non vengono annotate urine torbide o maleodoranti, se non vi è un protocollo di sostituzione dei cateteri a rischio, la responsabilità non è individuale ma collettiva. La medicina moderna non può tollerare omissioni organizzative nella prevenzione di eventi che si ripetono con frequenza.
Ogni struttura deve disporre di protocolli chiari per la gestione delle infezioni urinarie complicate. Devono essere definiti tempi di esecuzione degli esami, criteri per il ricovero, timing della terapia antibiotica, modalità di raccolta campioni e soglie di intervento. Se queste procedure non esistono, o non vengono rispettate, il paziente non è tutelato. E il danno non è solo clinico, ma giuridico.
La formazione continua dei medici e infermieri è uno strumento imprescindibile di prevenzione. Saper riconoscere i sintomi della sepsi urinaria, saper interpretare i segni precoci, saper attivare il percorso diagnostico corretto, sono competenze che ogni professionista deve possedere. Non si può accettare che una diagnosi semplice venga mancata per distrazione, superficialità o mancanza di aggiornamento.
In conclusione, la responsabilità medica per mancata diagnosi di infezione urinaria evoluta in sepsi si configura ogniqualvolta, in presenza di sintomi suggestivi, non venga attivato tempestivamente un iter diagnostico adeguato, non venga prescritta la terapia necessaria o venga sottovalutata la gravità del quadro clinico. È una colpa tanto più grave quanto più prevedibile era l’evoluzione, e quanto più semplice sarebbe stato prevenire l’evento.
Ogni sepsi urinaria nasce da un’infezione trascurata. Ogni febbre ignorata è un grido soffocato. Ogni esame non richiesto è una diagnosi mancata. E ogni volta che la medicina dimentica di ascoltare i segnali del corpo, la malattia prende il sopravvento. Quando ciò accade, il silenzio clinico non è solo un errore: è una responsabilità.
Quando si configura la responsabilità medica?
- Il paziente presenta sintomi compatibili con IVU non indagati;
- Il quadro clinico evolutivo non è stato seguito e monitorato;
- La sepsi è comparsa per assenza o ritardo della terapia antibiotica mirata;
- I protocolli diagnostici non sono stati rispettati;
- La documentazione clinica evidenzia negligenza o imperizia.
Quali leggi regolano questi casi?
- Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017) sulla responsabilità sanitaria e prevenzione del rischio clinico;
- Art. 2043 c.c., per danno da fatto illecito;
- Art. 2236 c.c., per colpa tecnica in ambito medico;
- Art. 589 e 590 c.p., lesioni personali o omicidio colposo;
- Linee guida infettivologiche e ospedaliere aggiornate al 2025.
Quali sono i casi di risarcimento riconosciuti in Italia?
- Donna 62enne dimessa con diagnosi di “cistite”, deceduta due giorni dopo per shock settico: risarcimento di 2.300.000 euro;
- Uomo con catetere vescicale e sintomi ignorati, sviluppa insufficienza renale e sepsi: risarcimento di 1.950.000 euro;
- Paziente geriatrico con infezione urinaria non trattata, trasferito in terapia intensiva con danni cerebrali permanenti: risarcimento di 2.000.000 euro.
A chi rivolgersi per ottenere giustizia?
In caso di sepsi urinaria non diagnosticata o trattata in ritardo, è fondamentale rivolgersi a avvocati con competenze specifiche in responsabilità sanitaria per errori diagnostici e omissioni infettivologiche. La tutela prevede:
- Analisi della cartella clinica e dei protocolli adottati;
- Collaborazione con infettivologi, nefrologi, geriatri e medici legali;
- Ricostruzione dettagliata del decorso clinico e delle omissioni terapeutiche;
- Dimostrazione del nesso causale tra errore medico e danno o decesso;
- Richiesta di risarcimento integrale per danni biologici, morali, esistenziali ed economici.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità si avvalgono di specialisti in malattie infettive, medicina d’urgenza e medicina legale, garantendo una tutela rigorosa e multidisciplinare per ogni caso in cui un’infezione urinaria evolva in sepsi a causa di negligenza.
La sepsi da IVU è un evento grave ma prevenibile. Quando non viene diagnosticata per tempo, il paziente ha diritto a una difesa legale ferma e qualificata.
Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici: