Introduzione
L’angioplastica coronarica con posizionamento di stent è uno degli interventi più comuni per trattare la cardiopatia ischemica e prevenire l’infarto miocardico. Ma l’efficacia dello stent non dipende solo dalla procedura: è strettamente legata alla somministrazione immediata e continuativa della terapia antiaggregante, necessaria per impedire la formazione di trombi.
Clopidogrel, ticagrelor, prasugrel, aspirina: questi farmaci salvano la vita dopo l’impianto di uno stent. Se non vengono prescritti, somministrati o se vengono sospesi senza adeguata motivazione medica, il rischio di trombosi dello stent diventa altissimo. E con essa, il rischio di infarto, aritmie fatali, danno neurologico o morte.

Quando la terapia antiaggregante non viene somministrata per errore medico o ospedaliero, si configura una responsabilità professionale di estrema gravità. Un’omissione apparentemente semplice può trasformarsi in un danno permanente o addirittura letale.
In questo articolo analizziamo tutto: cos’è la terapia antiaggregante post-stent? Quando è obbligatoria? Quali sono gli errori più frequenti? Quali danni può causare un’omissione? Cosa dice la legge? Quanto si può ottenere come risarcimento? E, nella parte finale, vedremo le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità, che si occupano dei casi più gravi di negligenza terapeutica in ambito cardiologico.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
A cosa serve la terapia antiaggregante post-stent?
Serve a impedire la formazione di coaguli di sangue (trombi) all’interno dello stent coronarico, che, essendo un corpo estraneo, attiva le piastrine.
Senza farmaci antiaggreganti, lo stent può occludersi completamente in poche ore, provocando un infarto acuto.
Quando è obbligatoria?
- Dopo qualsiasi tipo di stent, sia metallico che medicato
- Per un periodo di almeno 6-12 mesi, salvo controindicazioni documentate
- Dopo infarti STEMI, NSTEMI, angina instabile trattata con stent
- Anche in pazienti ad alto rischio, con opportune precauzioni
La mancata somministrazione, senza giustificato motivo, costituisce violazione delle linee guida internazionali.
Quali sono le cause più frequenti degli errori e delle complicanze in caso di mancata somministrazione di terapia antiaggregante dopo il posizionamento di uno stent?
L’impianto di uno stent coronarico è un momento critico e salvavita per molti pazienti. Serve a riaprire un’arteria ostruita, a garantire il flusso sanguigno verso il cuore e a prevenire infarti futuri. Ma lo stent, per sua natura, è un corpo estraneo inserito in un’arteria. E come tutti i materiali protesici, genera una reazione immediata di difesa da parte dell’organismo, che tende a formare coaguli, placche, ispessimenti. Per questo motivo, la somministrazione tempestiva e continua di terapia antiaggregante è parte integrante dell’intervento stesso. Non è una semplice prescrizione accessoria: è il proseguimento clinico dell’atto tecnico. E se questa terapia viene dimenticata, omessa o gestita male, il paziente può morire per trombosi da stent.
La prima grande responsabilità è non avviare la terapia antiaggregante già in sala di emodinamica, subito dopo il posizionamento dello stent. Alcuni pazienti vengono trattati in emergenza, in situazioni critiche, ma per dimenticanza, confusione o errori di comunicazione, non ricevono né aspirina né clopidogrel, né altri antiaggreganti piastrinici. Le prime ore sono decisive. Il sangue, trovandosi a contatto con la superficie dello stent, inizia ad aggregarsi. In poche ore può formarsi un trombo massivo che occlude lo stent appena impiantato. Il risultato? Un infarto miocardico più grave di quello che si voleva curare. E in molti casi, letale.
Un altro errore frequente riguarda l’interruzione precoce della terapia antiaggregante nei giorni successivi all’intervento. Alcuni pazienti vengono trasferiti in reparti dove non viene data la giusta importanza alla terapia duale. Si sospende la doppia antiaggregazione per eseguire esami invasivi, per paura di emorragie, o semplicemente perché si ritiene che “non serva più”. Ma ogni sospensione precoce, se non giustificata da motivi vitali e bilanciata da strategie alternative, è un errore potenzialmente fatale. Lo stent non è ancora endotilizzato. Il rischio di trombosi è massimo. E il cuore, già fragile, non regge un nuovo insulto ischemico.
Ci sono casi in cui la terapia viene effettivamente prescritta, ma mai somministrata. È scritto in cartella, ma l’infermiere non trova la terapia in reparto. La farmacia ospedaliera non ha il farmaco. Il paziente è in NPO (nulla per os) e non può assumere la compressa, ma nessuno chiede un’alternativa parenterale. Il paziente resta scoperto per 12, 24, 36 ore. E quando inizia ad accusare dolore toracico, è ormai tardi: la trombosi dello stent è avvenuta. Il danno è compiuto.
Talvolta, l’errore non è nella mancata somministrazione, ma nella mancata istruzione del paziente alla dimissione. Alcuni escono dall’ospedale senza aver compreso l’importanza assoluta della doppia antiaggregazione. Nessuno ha spiegato loro che basta saltare una sola dose per mettere a rischio la propria vita. Altri pensano che, avendo finito i farmaci ricevuti in ospedale, possano “prendere fiato” per qualche giorno prima di comprarli. Nessuno ha controllato se fossero in possesso della ricetta. Nessuno ha verificato la reale disponibilità economica o la presenza in farmacia. Il paziente arriva al pronto soccorso con dolore toracico e ST sopraslivellato. Ma lo stent era perfettamente posizionato. Solo che è stato dimenticato dalla terapia.
Vi sono anche errori più tecnici, ma non meno gravi, come la scelta errata del tipo di antiaggregante. Alcuni pazienti sono resistenti al clopidogrel e necessitano di farmaci alternativi (prasugrel, ticagrelor). Se questa resistenza è nota, ma viene ignorata, o se il paziente presenta interazioni farmacologiche con altri trattamenti, la terapia diventa inefficace. Formalmente tutto è stato fatto, ma clinicamente non ha funzionato. E la responsabilità ricade su chi non ha approfondito, su chi non ha adattato la cura al profilo individuale.
Esistono anche casi di errore di trascrizione. Il medico compila la terapia ma il gestionale la registra male. Il nome del farmaco viene scambiato, il dosaggio è sbagliato, la frequenza viene interpretata diversamente. Nessuno controlla. Nessuno si accorge dell’errore. Il paziente assume un antiaggregante inadeguato o in quantità insufficiente. Il sangue si aggrega. Il flusso si interrompe. Il cuore soffre. E quando si arriva alla diagnosi, non resta che constatare l’infarto o il decesso.
Grave, infine, è la gestione ospedaliera delle emergenze emorragiche nei pazienti stentati. Se un paziente sanguina, non basta sospendere in blocco tutta la terapia antiaggregante. Serve una valutazione multidisciplinare, un bilancio rischi/benefici, l’utilizzo di ponti terapeutici. Sospendere tutto, senza alternative, equivale ad abbandonare il paziente a una trombosi annunciata. E quando questo avviene, nessuno può dire che non fosse prevedibile.
Dal punto di vista medico-legale, la mancata somministrazione della terapia antiaggregante post-stent rappresenta una delle omissioni più gravi in ambito cardiovascolare. Perché non serve un’analisi sofisticata per sapere che uno stent lasciato senza protezione farmacologica diventa una bomba a orologeria. La medicina lo sa. Le linee guida lo dicono. I protocolli lo impongono. Quando viene omessa questa terapia, il nesso causale con il danno è diretto, logico, immediato.
Le conseguenze per il paziente sono spesso devastanti. Un nuovo infarto, con danni più gravi del primo. Arresto cardiaco improvviso. Morte inaspettata a casa, in strada, durante la notte. O, nei casi non fatali, insufficienza cardiaca cronica, disabilità, dipendenza da terapie complesse. E tutto questo per una pillola non data. Per una firma mancante. Per una verifica non fatta.
Quando si impianta uno stent, si assume un impegno. Non solo tecnico, ma terapeutico, umano, comunicativo. Non è sufficiente aprire un’arteria. Bisogna proteggerla. E quando il paziente muore per una trombosi che si poteva evitare con una semplice compressa, non si può parlare di destino. Si parla di errore. E, in troppi casi, di colpa.
Quando si configura la responsabilità medica per non somministrazione di terapia antiaggregante post stent?
La responsabilità medica per non somministrazione di terapia antiaggregante post stent si configura ogniqualvolta il paziente, sottoposto ad angioplastica con impianto di stent coronarico, non riceve la necessaria terapia farmacologica di mantenimento – o la riceve in modo incompleto, errato, discontinuo – e da ciò consegue una trombosi dello stent, un infarto miocardico o un decesso che potevano essere evitati. L’angioplastica coronarica con stenting è oggi una procedura salvavita ampiamente consolidata, ma non può essere considerata conclusa nel momento in cui il catetere viene rimosso. Lo stent è un corpo estraneo che, pur ripristinando il lume dell’arteria, innesca una risposta infiammatoria e trombotica immediata. Per questo, la somministrazione di farmaci antiaggreganti come aspirina e clopidogrel – o altri inibitori del P2Y12 – è obbligatoria, non opzionale.
Il protocollo di doppia antiaggregazione piastrinica (DAPT) dopo stent è una regola codificata a livello internazionale. Non esiste alcuna giustificazione scientifica per interromperla o non iniziarla, salvo controindicazioni gravissime, documentate e gestite con soluzioni alternative. La sua omissione rappresenta, dunque, un errore clinico di rilievo assoluto. Il rischio che ne deriva è la trombosi acuta dello stent: un evento devastante, che nella maggior parte dei casi porta a un infarto massivo e può risultare fatale in pochi minuti. Quando un paziente operato di recente si ripresenta in pronto soccorso con dolore toracico, arresto cardiaco o shock cardiogeno, e si scopre che non ha assunto – o non ha ricevuto – la terapia antiaggregante, la responsabilità dell’équipe curante è pesante e difficilmente giustificabile.
L’errore può avvenire in diverse fasi. In sala operatoria, se il medico non prescrive subito la terapia; in reparto, se l’infermiere non la somministra; in dimissione, se il paziente riceve un foglio incompleto, poco chiaro o con dosaggi errati; in ambulatorio, se non viene monitorata l’aderenza o se si sospende prematuramente il trattamento. Anche la mancata comunicazione tra ospedale e medico di base può contribuire al disastro: in assenza di una chiara lettera di dimissione o di una corretta informazione, il paziente può rimanere senza copertura farmacologica senza neanche saperlo. E quando la trombosi arriva, il danno è già irreparabile.
Il paziente, nella stragrande maggioranza dei casi, non ha gli strumenti per capire da solo l’importanza della terapia. Spetta al medico spiegare, vigilare, educare. Se un paziente sospende il clopidogrel per un malinteso, per una visita odontoiatrica, per un’interferenza con altri farmaci e nessuno lo avvisa dei rischi, la responsabilità ricade su chi ha curato in modo incompleto. Anche le allergie o le intolleranze ai farmaci non sono un alibi: in quei casi esistono alternative terapeutiche, e la scelta deve essere comunque guidata e protetta da uno specialista.
La mancata documentazione della prescrizione è un indicatore di colpa. In sede medico-legale, se nella cartella clinica non compare la prescrizione della terapia antiaggregante, o se il dosaggio è ambiguo, o se manca la durata consigliata, l’errore è evidente. L’assenza di una tracciatura formale equivale, giuridicamente, a una condotta omissiva. E anche quando la prescrizione è presente, se non viene somministrata per giorni in reparto, o se viene sospesa per negligenza, la struttura sanitaria ne risponde in solido.
Le conseguenze per il paziente possono essere gravissime. La trombosi dello stent è una delle cause più comuni di infarto post-procedura, ed è tra le più difficili da trattare. In molti casi si manifesta con arresto cardiaco improvviso, senza preavviso. Se anche si riesce a salvare il paziente, il danno al muscolo cardiaco può essere permanente, con riduzione della frazione d’eiezione, aritmie, necessità di defibrillatori impiantabili o trapianto di cuore. Il paziente passa dall’essere guarito a essere cronico, con una qualità della vita fortemente compromessa. Tutto per una terapia che andava data, spiegata, controllata.
Dal punto di vista giuridico, la responsabilità medica si configura come contrattuale ai sensi dell’articolo 1218 del Codice Civile. Il paziente – o i suoi familiari, in caso di decesso – devono dimostrare di aver subito un danno grave a seguito della mancata somministrazione della terapia antiaggregante. Sarà il medico o la struttura a dover provare che la prescrizione è stata effettuata correttamente, che la terapia è stata somministrata, che il paziente è stato adeguatamente informato e monitorato. In mancanza di prove scritte, la responsabilità si presume. E il risarcimento può essere molto elevato, perché coinvolge spesso soggetti giovani, attivi, operati in elezione, che si aspettavano di uscire dall’intervento più forti, non più fragili.
Il consenso informato non copre questo tipo di errore. Nessun modulo firmato può giustificare la mancata protezione da un evento evitabile. Il paziente non accetta mai consapevolmente il rischio di trombosi da sospensione di terapia: accetta il rischio fisiologico, non quello causato da una dimenticanza o da un errore gestionale. Il consenso, dunque, non è uno scudo contro l’inadempimento terapeutico.
In conclusione, la responsabilità medica per non somministrazione di terapia antiaggregante post stent si configura ogniqualvolta il paziente viene lasciato senza copertura farmacologica dopo un impianto coronarico, e da ciò deriva un evento ischemico acuto. Lo stent salva, ma solo se viene protetto. Se quella protezione manca, e il paziente muore o resta invalido per un errore banale, la colpa non è del destino, ma della disorganizzazione. E il compito della giustizia è proprio questo: ristabilire la verità nei luoghi dove è stata smarrita. Anche con fermezza, anche con dolore, ma sempre con il rispetto che si deve a ogni vita ferita senza motivo.
Quali segni clinici devono allertare subito?
- Dolore toracico oppressivo post-intervento
- Sudorazione fredda, nausea, senso di morte imminente
- Perdita di coscienza
- Elettrocardiogramma alterato
- Marcatori enzimatici (troponina) elevati
Cosa prevede la legge?
- Art. 1218 c.c. – Responsabilità per inadempimento contrattuale della struttura
- Art. 2043 c.c. – Risarcimento per fatto illecito
- Legge 24/2017 (Gelli-Bianco) – Obbligo di somministrare cure secondo linee guida validate
- Art. 2236 c.c. – Anche nei casi complessi, l’errore grossolano è perseguibile
Esempi concreti?
Uomo di 64 anni, dimesso senza doppia antiaggregazione dopo stent. Trombo coronarico dopo 48 ore. Decesso. Risarcimento ai familiari: 630.000 euro.
Donna di 59 anni, antiaggregante non somministrato in pronto soccorso. Arresto cardiaco dopo due ore. Danno neurologico severo. Risarcimento: 540.000 euro.
Paziente di 71 anni, interruzione di ticagrelor senza valutazione. Trombosi stent e rivascolarizzazione d’urgenza. Insufficienza cardiaca permanente. Risarcimento: 450.000 euro.
Quanto può valere un risarcimento?
- Danno temporaneo risolto: 40.000 – 100.000 euro
- Danno cardiaco con invalidità permanente: 150.000 – 300.000 euro
- Morte improvvisa per omissione terapeutica: fino a 700.000 euro per i familiari
Quanto tempo si ha per agire?
- 10 anni contro strutture private
- 5 anni contro strutture pubbliche o medici dipendenti
- Il termine decorre dal momento della consapevolezza del danno
Quali documenti servono?
- Cartella clinica dell’intervento e delle dimissioni
- Prescrizione terapeutica e diario infermieristico
- ECG, referti enzimi, ecocardiogrammi post-evento
- Relazione del medico curante
- Referti autoptici (se applicabile)
- Perizia cardiologica e medico-legale
Cosa può fare l’avvocato?
- Acquisizione documentazione sanitaria completa
- Verifica della presenza (o assenza) della prescrizione antiaggregante
- Ricostruzione dell’evento e della condotta omissiva
- Collaborazione con specialisti in cardiologia forense
- Redazione della perizia medico-legale
- Avvio della procedura di mediazione e, se necessario, causa civile
Le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità
La mancata somministrazione della terapia antiaggregante post-stent è un errore che ha un solo nome: negligenza. È inaccettabile che un intervento tecnicamente riuscito venga annullato da un’omissione tanto semplice quanto fatale.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità trattano questi casi con precisione clinico-legale, in collaborazione con:
- Cardiologi interventisti e internisti forensi
- Rianimatori e medici legali esperti in eventi ischemici
- Consulenti per il calcolo dei danni patrimoniali e biologici
Ogni dettaglio viene ricostruito: dal referto operatorio alla terapia prescritta, fino al momento dell’infarto, del decesso o del peggioramento clinico.
Un errore terapeutico non deve mai restare impunito. Il paziente – o la sua famiglia – ha diritto a una risposta chiara, a una giustizia concreta e a un risarcimento pieno.
Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici: