Il tumore al colon-retto è la seconda neoplasia più frequente in Italia, sia tra gli uomini che tra le donne. La diagnosi precoce è determinante per garantire un trattamento efficace e una prognosi favorevole. Nei primi stadi, infatti, questo tipo di tumore può essere asportato chirurgicamente con buone possibilità di guarigione completa.
Gli strumenti di prevenzione e diagnosi sono ampiamente diffusi e scientificamente validati: test del sangue occulto nelle feci, colonscopia, rettoscopia, TAC addominale. Quando questi esami non vengono prescritti per tempo o vengono interpretati in modo errato, il rischio di una diagnosi tardiva aumenta notevolmente.

Un tumore al colon-retto non diagnosticato in tempo può evolvere fino a stadi avanzati, con metastasi epatiche o polmonari, riducendo drasticamente le possibilità di cura. In questi casi, se l’omissione è attribuibile a errore medico, il paziente ha diritto a un risarcimento per i danni subiti.
In questo articolo analizzeremo le cause più frequenti della mancata diagnosi del tumore al colon-retto, i riferimenti normativi aggiornati al 2025, i dati ufficiali, i casi di risarcimento riconosciuti e le competenze professionali necessarie per ottenere giustizia in sede legale.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali sono le cause più comuni della mancata diagnosi del tumore al colon-retto da parte di un medico?
Il tumore del colon-retto è una delle principali cause di morte per cancro in Italia, nonostante sia tra i più prevenibili e trattabili se diagnosticato precocemente. Ogni anno migliaia di persone scoprono di avere un carcinoma del colon o del retto quando la malattia è già in fase avanzata. E in molti casi, la diagnosi tardiva è dovuta non alla mancanza di strumenti o terapie, ma a una serie di errori e sottovalutazioni che coinvolgono anche il medico. La mancata diagnosi non nasce quasi mai da un errore grossolano, ma da un insieme di scelte cliniche apparentemente “normali” che, sommate, portano a un grave ritardo.
Uno dei primi motivi è la sottovalutazione dei sintomi iniziali. I segnali precoci del tumore al colon-retto possono essere vaghi: stanchezza, sensazione di pancia gonfia, crampi addominali, cambiamenti nell’alvo intestinale come diarrea alternata a stitichezza, presenza di sangue nelle feci. Spesso questi sintomi vengono attribuiti a disturbi benigni: colon irritabile, emorroidi, stress, alimentazione disordinata. Il paziente riferisce di avere “un po’ di sangue quando va in bagno”, ma se è giovane, o non ha familiarità per tumori intestinali, il medico può minimizzare il dato, attribuendolo ad una ragade o ad una congestione emorroidaria, senza richiedere subito esami endoscopici.
Un altro fattore è legato all’età del paziente. I programmi di screening si concentrano, per ragioni statistiche, sulla fascia 50-69 anni, quella con incidenza più alta. Ma negli ultimi anni i tumori del colon-retto stanno aumentando anche tra i giovani, spesso sotto i 45 anni. Questo cambio di scenario non è ancora ben assimilato nella pratica clinica. Se un trentenne presenta sintomi intestinali, molti medici non pensano subito a un possibile tumore. Così si innesca una gestione conservativa, basata su dieta, probiotici o antispastici, che ritarda esami cruciali come la colonscopia.
Anche la mancanza di un’anamnesi familiare approfondita è un punto critico. Esistono sindromi genetiche ereditarie, come la FAP o la sindrome di Lynch, che aumentano enormemente il rischio di sviluppare tumori al colon in giovane età. Ma se il medico non chiede, oppure il paziente non sa o non ricorda i dettagli della storia oncologica della famiglia, questa informazione cruciale non viene raccolta. Senza un’anamnesi accurata, il medico perde un indicatore fondamentale per decidere se e quando avviare uno screening anticipato.
Uno degli strumenti più efficaci per la diagnosi precoce è il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci, che ogni Regione offre gratuitamente dopo i 50 anni. Ma questo test ha dei limiti: può essere negativo anche in presenza di un tumore non sanguinante o di un polipo ad alto rischio. Molti medici di base si affidano al risultato negativo del test come se fosse una garanzia assoluta, dimenticando che un sintomo persistente supera qualsiasi screening negativo. Se il paziente ha sanguinamenti, dolore addominale, perdita di peso, il test negativo non deve bloccare ulteriori indagini, ma stimolare semmai ad andare oltre.
Un altro errore frequente è la sopravvalutazione delle diagnosi alternative. Il colon irritabile è una diagnosi molto usata per spiegare dolori addominali, meteorismo, alternanza tra stipsi e diarrea. Ma per definizione è una condizione “di esclusione”, ovvero va diagnosticata solo quando tutte le altre cause organiche sono state escluse, inclusi i tumori. In realtà, nella pratica quotidiana capita che venga usata troppo presto, come scorciatoia diagnostica. Il paziente riceve rassicurazioni, inizia una terapia sintomatica, e la vera causa resta nascosta.
Il tempo di attesa per una colonscopia è un altro ostacolo rilevante. Anche se il medico vuole agire tempestivamente, può scontrarsi con liste d’attesa lunghe mesi, soprattutto nelle strutture pubbliche. Alcuni, sapendo di questi ritardi, preferiscono adottare un atteggiamento attendista, sperando che i sintomi si risolvano da soli. Altri consigliano al paziente di andare nel privato, ma non tutti possono permetterselo. Questo divario tra medicina teorica e medicina reale è ancora troppo ampio, e colpisce soprattutto chi ha meno risorse economiche o vive in aree meno attrezzate.
Non va poi dimenticato l’aspetto comunicativo. In alcuni casi, il medico tende a minimizzare per non creare ansia nel paziente, oppure sceglie parole ambigue come “vediamo come va” o “teniamolo sotto controllo”, senza indicare chiaramente tempi e modalità per gli accertamenti. Questo linguaggio incerto può indurre il paziente a non tornare, a rimandare i controlli o a cambiare medico. Al contrario, sarebbe necessario spiegare con chiarezza che alcuni sintomi, anche se non gravi, richiedono verifiche precise, come la colonscopia o la TAC addome.
Anche la scarsa conoscenza delle linee guida aggiornate può giocare un ruolo. Alcuni medici di medicina generale non sono informati sui protocolli oncologici più recenti, o non sono abituati a ragionare in termini di “red flags”, cioè segnali d’allarme. Il paziente che perde peso senza motivo, che riferisce stanchezza continua, che ha anemia inspiegabile, dovrebbe essere sempre considerato a rischio oncologico, anche in assenza di dolore. L’anemia sideropenica, ad esempio, è uno dei segni più trascurati di tumore del colon, eppure è spesso presente nei mesi che precedono la diagnosi.
Un altro elemento riguarda gli esami di primo livello, come l’ecografia addominale. Spesso viene usata come “test tuttofare” per esplorare il tratto gastrointestinale, ma l’ecografia non è l’esame giusto per esplorare l’intestino. Può essere utile per altri organi, ma ha una sensibilità molto bassa per le lesioni del colon. Quando un paziente presenta sintomi intestinali, affidarsi solo a questo esame può dare un falso senso di sicurezza. Solo la colonscopia permette di visualizzare direttamente la mucosa intestinale e prelevare eventuali biopsie.
La gestione superficiale dei referti è un altro fattore non trascurabile. In alcuni casi, anche quando un esame viene effettuato, il suo contenuto non viene letto con attenzione o non viene interpretato nel contesto clinico. Una rettoscopia parziale con un’espressione come “presenza di tessuto infiammatorio” può essere archiviata come colite, senza pensare che possa trattarsi di una neoplasia. Una TAC con “ispessimento parietale” può essere vista come un’esito infiammatorio, quando invece dovrebbe far pensare subito a una neoplasia da indagare con urgenza.
Infine, c’è l’aspetto del tempo medico-paziente. In un sistema sanitario spesso sovraccarico, con ambulatori affollati e tempi stretti, il medico può non avere abbastanza minuti per ascoltare in profondità il racconto del paziente, per cogliere i dettagli, per costruire un percorso diagnostico coerente. Il rischio è che tutto si riduca a sintomi singoli gestiti con terapie sintomatiche, senza una visione globale. Ma il tumore al colon-retto, come molti tumori, si nasconde nei dettagli, nella combinazione dei sintomi, nei piccoli cambiamenti progressivi.
Il tumore del colon-retto si può prevenire, si può diagnosticare in tempo, e si può curare. Ma questo richiede attenzione, formazione, tempo, strumenti e capacità di ascolto. Il medico ha un ruolo chiave, non solo nel prescrivere esami, ma nel decidere quando farlo, a chi, e con quale urgenza. Non può più affidarsi solo alla statistica o alla rassicurazione automatica. Ogni paziente con un sintomo intestinale persistente merita un percorso chiaro, documentato, completo.
Ogni tumore diagnosticato in fase avanzata è una ferita nel sistema. Ogni mese di ritardo è un’opportunità persa. Ogni dubbio ignorato è un rischio inutile. La diagnosi precoce non è fortuna: è competenza, è metodo, è responsabilità condivisa tra medico e paziente. Solo così, con consapevolezza e rigore, possiamo ridurre i casi di diagnosi mancata e garantire a ogni persona la possibilità concreta di una cura efficace e tempestiva.
Quanto è diffusa la diagnosi tardiva del tumore al colon-retto?
Secondo i dati AIOM, nel 2024 in Italia sono stati diagnosticati circa 50.000 nuovi casi di tumore del colon-retto. Di questi, oltre il 20% viene diagnosticato in fase metastatica, spesso a causa di omissioni nella prevenzione o ritardi diagnostici evitabili. In particolare, nelle Regioni dove i programmi di screening sono meno diffusi o discontinui, l’incidenza delle diagnosi tardive è significativamente più alta.
Quando si configura la responsabilità medica per diagnosi mancata?
La responsabilità medica per diagnosi mancata si configura quando il medico, pur avendo a disposizione elementi clinici, sintomi riferiti, esami eseguibili o linee guida di riferimento, omette di formulare o di ricercare la diagnosi corretta, e questo comportamento provoca un danno al paziente. Non è sufficiente che la diagnosi sia errata: è necessario che fosse esigibile, cioè ragionevolmente formulabile da un medico diligente nella stessa situazione. In termini giuridici, ciò che rileva è la violazione del dovere di diligenza, prudenza e perizia che grava su ogni esercente la professione sanitaria. La medicina non è una scienza esatta, ma quando l’omissione diagnostica è frutto di superficialità, sottovalutazione dei sintomi o mancato approfondimento, la colpa può essere accertata.
Il punto centrale è il nesso tra il comportamento omissivo e il danno alla salute. Se il paziente ha subito un peggioramento evitabile, una perdita di chance terapeutica, un aggravamento clinico o una morte precoce a causa della mancata diagnosi, la responsabilità diventa concreta. È irrilevante che la patologia fosse complessa o rara: ciò che conta è stabilire se, in base ai sintomi presenti e alle conoscenze disponibili al momento, il medico avrebbe dovuto sospettarla e attivare il percorso diagnostico corretto.
Uno degli errori più frequenti riguarda la sottovalutazione dei sintomi iniziali. Pazienti che lamentano dolori persistenti, sanguinamenti anomali, febbre di origine sconosciuta, perdita di peso, astenia o disturbi neurologici, spesso vengono trattati in modo sintomatico senza che si indaghi a fondo. Alcuni vengono liquidati con una diagnosi frettolosa di stress, influenza o gastrite, quando invece i segnali sono compatibili con patologie gravi. Se il medico non approfondisce, non prescrive esami mirati o non invia allo specialista, e la malattia viene scoperta solo quando è troppo tardi, la sua condotta può essere considerata negligente.
Altro errore comune è l’errata interpretazione di esami già eseguiti. Capita che referti radiologici, esami del sangue o dati strumentali vengano letti in modo sommario, o peggio, ignorati del tutto. Una macchia sospetta a un polmone può essere scambiata per un’infezione passeggera, un valore anomalo di PSA può non essere seguito da biopsia, un nodulo mammario può essere considerato benigno senza fare un esame istologico. In questi casi, la diagnosi era già a portata di mano, ma è stata mancata per imperizia o disattenzione.
Anche la mancata prescrizione di esami fondamentali rientra tra le condotte censurabili. Non richiedere un’ecografia addominale in presenza di dolori persistenti, non eseguire un ECG in un paziente con dolore toracico, non disporre una risonanza in caso di segni neurologici focali, significa trascurare la possibilità di una diagnosi tempestiva. L’errore diagnostico non è solo il risultato di un’analisi sbagliata: può essere anche il frutto di un’omissione di controllo, cioè di non aver cercato quello che era necessario cercare.
Nei casi di patologie oncologiche, la diagnosi mancata assume un rilievo particolarmente grave. Il tempo, in oncologia, è un fattore determinante. Diagnosticare un tumore in stadio iniziale può significare guarigione, mentre individuarlo tardi può significare metastasi, trattamenti mutilanti, dolore e morte. I tribunali, in questi casi, riconoscono spesso la responsabilità del medico o della struttura sanitaria per perdita di chance, anche se non è possibile dimostrare con certezza che il paziente si sarebbe salvato. Basta provare che una diagnosi tempestiva avrebbe aumentato significativamente le probabilità di sopravvivenza o ridotto la sofferenza.
Anche nei casi non oncologici, la mancata diagnosi può produrre danni gravi. Una trombosi non riconosciuta può causare un’embolia fatale. Un’appendicite trascurata può degenerare in peritonite. Un’infezione non trattata può portare a sepsi. In ambito neurologico, non diagnosticare un ictus ischemico nei tempi giusti può significare perdita permanente di funzioni motorie, cognitive o vitali. Ogni minuto perso ha un peso specifico nel destino del paziente. La responsabilità nasce dal fatto che quei minuti potevano essere usati meglio.
Dal punto di vista giuridico, per accertare la colpa medica è necessario affidarsi a una consulenza tecnica, che valuti la documentazione clinica, le decisioni prese dal medico e le alternative percorribili. L’onere della prova è in parte agevolato per il paziente: non deve dimostrare in modo assoluto che la diagnosi corretta avrebbe evitato il danno, ma deve offrire una ricostruzione logica, coerente e fondata sulla probabilità. Sarà poi il medico o la struttura sanitaria a dover dimostrare di aver agito secondo i protocolli, con attenzione e in modo tecnicamente corretto.
La responsabilità si estende anche alla struttura sanitaria quando il danno deriva da un’organizzazione carente: tempi d’attesa troppo lunghi per esami urgenti, assenza di strumenti diagnostici fondamentali, mancanza di comunicazione tra reparti o tra medico e paziente. Il paziente ha diritto a un percorso diagnostico efficiente e sicuro, e quando questo non è garantito, anche la struttura può essere chiamata a rispondere.
Esistono poi situazioni in cui la diagnosi mancata è il frutto di una catena di errori: medico di base che non invia allo specialista, specialista che non interpreta correttamente il quadro, radiologo che non segnala una lesione, amministrazione sanitaria che ritarda gli esami. In questi casi la responsabilità può essere condivisa tra più soggetti, e ciascuno dovrà rispondere per la parte di competenza.
Il dovere del medico non è indovinare la malattia, ma fare tutto il possibile per trovarla. Quando omette di cercarla, o smette troppo presto di indagare, tradisce la fiducia del paziente e viola il patto di cura su cui si fonda la medicina. La responsabilità per diagnosi mancata non punisce l’errore inevitabile, ma quello evitabile. E a volte, quell’errore evitabile ha un prezzo altissimo: una vita che poteva essere salvata, una malattia che poteva essere curata, un futuro che poteva essere diverso.
Quali sono le normative di riferimento?
- Legge Gelli-Bianco (Legge n. 24/2017), che disciplina in modo dettagliato la responsabilità sanitaria;
- Art. 2043 Codice Civile, per il risarcimento del danno ingiusto derivante da fatto illecito;
- Art. 2236 Codice Civile, per la responsabilità del professionista per colpa grave;
- Art. 590 e 589 Codice Penale, che sanzionano le lesioni e l’omicidio colposo per errore medico.
Quali sono gli esempi di risarcimento riconosciuto?
- Paziente con diagnosi ritardata di 3 anni, metastasi epatiche insorte: risarcimento di 1.200.000 euro;
- Caso di test del sangue occulto positivo ignorato: risarcimento di 750.000 euro;
- Lesione sospetta segnalata in colonscopia ma mai seguita da biopsia: risarcimento di 890.000 euro;
- Colonscopia effettuata con oltre 18 mesi di ritardo rispetto alla sintomatologia: risarcimento di 940.000 euro.
A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento?
Chi ritiene di aver subito un danno per diagnosi mancata o ritardata di tumore al colon-retto deve rivolgersi a un avvocato esperto in malasanità oncologica, in grado di:
- Analizzare nel dettaglio il percorso diagnostico e terapeutico;
- Richiedere una perizia medico-legale specifica in ambito oncologico;
- Ricostruire il nesso causale tra ritardo/errore e danno biologico;
- Avviare un’azione risarcitoria in sede civile (o, nei casi più gravi, anche penale).
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità lavorano in sinergia con medici legali esperti in oncologia e gastroenterologia per garantire una tutela completa ed efficace. Ogni caso viene seguito con attenzione, rigore giuridico e umanità.
Conclusione
Il tumore al colon-retto, se scoperto in tempo, è spesso curabile. Ma quando la diagnosi arriva tardi a causa di errori evitabili, le conseguenze possono essere fatali. In questi casi, la legge offre strumenti per ottenere giustizia e risarcimento.
Agire con tempestività è essenziale. Riconoscere un errore diagnostico e far valere i propri diritti è un passo fondamentale per restituire dignità alla sofferenza vissuta.
Se sospetti una diagnosi tardiva di tumore al colon-retto, non restare in silenzio: chiedi giustizia.
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