L’appendicite acuta è una delle urgenze chirurgiche più frequenti e note. Se diagnosticata e trattata per tempo con un’appendicectomia, ha nella maggior parte dei casi un decorso semplice e senza complicanze. Tuttavia, quando non viene riconosciuta tempestivamente, può evolvere in peritonite, ascesso addominale, sepsi e morte.
I sintomi tipici – dolore in fossa iliaca destra, febbre, nausea, vomito, alterazione degli esami ematici – possono inizialmente essere sfumati o atipici, soprattutto in bambini, anziani, donne in gravidanza o pazienti con patologie associate. Se il medico sottovaluta il quadro clinico, non richiede gli esami strumentali corretti (ecografia, TAC) o non consulta tempestivamente il chirurgo, può configurarsi un errore diagnostico con gravi conseguenze.

Quando il paziente subisce un aggravamento evitabile per negligenza, imprudenza o imperizia medica, ha diritto a un risarcimento per i danni subiti, anche in caso di morte.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Quali sono le cause più comuni della mancata diagnosi di appendicite acuta?
L’appendicite acuta rappresenta una delle urgenze chirurgiche più frequenti in medicina, e nonostante l’apparente semplicità diagnostica, rimane tra le patologie con più alto tasso di diagnosi mancate o ritardate, in particolare nelle fasi iniziali o nei pazienti con presentazioni atipiche. La diagnosi precoce è fondamentale per prevenire complicanze gravi come la perforazione, l’ascesso periappendicolare o la peritonite diffusa, che comportano un peggioramento significativo della prognosi, un aumento dei giorni di degenza e della mortalità. Il problema non risiede tanto nell’assenza di strumenti diagnostici quanto nella complessità con cui l’appendicite può manifestarsi in vari contesti clinici.
Una delle principali cause di mancata diagnosi è la notevole variabilità della presentazione clinica, che dipende dalla posizione anatomica dell’appendice, dall’età del paziente, dal tempo trascorso dall’inizio dei sintomi e dalla presenza di condizioni concomitanti. Sebbene il classico quadro di dolore addominale che migra dall’epigastrio o periombelicale alla fossa iliaca destra, associato a febbricola e nausea, sia ben noto, questa sequenza non è presente in tutti i casi. In molte situazioni, il dolore resta diffuso, o è localizzato in sede retrocecale, pelvica o lombare, con manifestazioni cliniche ambigue.
I bambini piccoli, gli anziani e le donne in età fertile sono le categorie a più alto rischio di errore diagnostico. Nei bambini, il quadro è spesso confuso da vomito precoce, febbre elevata, irritabilità e diarrea, inducendo il medico a sospettare una gastroenterite. Negli anziani, il dolore può essere attenuato per effetto di una risposta infiammatoria ridotta e per la presenza di comorbilità che mascherano i segni tipici: il paziente può presentarsi con modesto malessere, febbricola e confusione mentale. Nelle donne in età fertile, la sovrapposizione con patologie ginecologiche acute come salpingiti, gravidanza extrauterina, cisti ovariche rotte o torsione annessiale rende la diagnosi estremamente sfidante. In questi casi, se il medico non mantiene alto il sospetto, l’appendicite può essere trascurata o scambiata per un problema di altra natura.
Un’altra causa frequente è la fiducia eccessiva in esami obiettivi o laboratoristici normali nelle prime ore. I parametri infiammatori (leucocitosi, neutrofilia, PCR elevata) possono essere inizialmente normali o lievemente alterati. L’esame obiettivo può risultare incerto, soprattutto nei pazienti obesi, nei soggetti con addome ipertonico o in chi ha assunto analgesici o antinfiammatori. In presenza di un esame obiettivo poco suggestivo e di esami ematochimici non marcatamente patologici, il rischio è che si minimizzi il quadro clinico, rinviando la rivalutazione a un secondo momento, quando l’appendice può già essere perforata.
Una trappola comune è l’errata interpretazione del dolore addominale associato a diarrea. Sebbene la diarrea sia classicamente considerata un sintomo che allontana la diagnosi di appendicite, in realtà può comparire soprattutto quando l’appendice è in sede pelvica e irrita il retto. Il medico che si lascia guidare solo da criteri rigidi può dunque scartare erroneamente la diagnosi solo perché il paziente riferisce feci liquide. Il dato isolato non ha valore predittivo negativo assoluto: va interpretato nel contesto complessivo.
Un altro elemento critico è l’uso improprio o eccessivamente selettivo della diagnostica per immagini. L’ecografia addominale, spesso utilizzata come primo esame, è operatore-dipendente e può essere negativa nei casi di appendice retrocecale o poco visibile per meteorismo. Una falsa sicurezza derivante da un’ecografia negativa può portare a sottovalutare la situazione. La tomografia computerizzata (TAC) con contrasto è il gold standard nei casi dubbi, ma non viene sempre richiesta tempestivamente, per timori legati alla radiazione, ai costi o per sottostima del rischio. Quando la TAC viene posticipata, la diagnosi può arrivare solo quando si è già instaurata una complicanza.
In ambito di pronto soccorso, la pressione assistenziale può condurre a decisioni rapide e non sufficientemente supportate da rivalutazioni cliniche. Il dolore addominale, sintomo comune e spesso benigno, viene frequentemente trattato in modo empirico. Se il paziente migliora dopo analgesia, viene spesso dimesso senza eseguire indagini approfondite. Tuttavia, il sollievo transitorio dal dolore non esclude l’appendicite, soprattutto se la flogosi è ancora in fase catarrale o iniziale. Una dimissione precoce in assenza di una rivalutazione a breve può portare a una diagnosi tardiva quando la situazione è ormai compromessa.
Non va trascurato il ruolo dei bias cognitivi nel processo diagnostico. Il medico può cadere nell’errore di ancoraggio, mantenendo un’ipotesi iniziale errata (ad esempio, gastroenterite, cistite, dispepsia) e interpretando tutti i dati successivi alla luce di quella convinzione. Il bias di rassicurazione può insorgere in pazienti giovani o senza comorbidità, nei quali si tende a escludere patologie gravi solo in base all’apparenza clinica. Il ragionamento clinico deve invece mantenersi aperto, flessibile e fondato sull’evoluzione temporale dei sintomi.
Un’altra causa comune è la mancanza di rivalutazione clinica strutturata nei casi incerti. L’appendicite è una malattia dinamica: i segni clinici e di laboratorio possono evolvere nel giro di poche ore. Se il paziente viene valutato solo una volta, in una fase precoce, il quadro può non essere ancora suggestivo. È fondamentale, nei casi sospetti ma non diagnostici, prevedere una rivalutazione clinica entro 6-12 ore, con ripetizione dell’esame obiettivo e degli esami di laboratorio. Saltare questa fase equivale a perdere l’occasione per cogliere la progressione tipica della malattia.
Anche l’assenza di consulto chirurgico precoce può influire. In molte situazioni, il medico di medicina d’urgenza o il medico di base si assume da solo la responsabilità della valutazione iniziale, senza coinvolgere il chirurgo se non in caso di chiara urgenza. Ma l’appendicite non sempre si presenta in modo eclatante: un occhio esperto può cogliere segni deboli ma significativi e decidere per un intervento precoce o per un’osservazione più stretta.
Infine, la patologia appendicolare non complicata viene a volte considerata una condizione “benigna” o autolimitante, soprattutto nella discussione recente sul trattamento conservativo con antibiotici. Questo può ridurre la percezione della gravità del rischio se non si applica un rigoroso criterio di selezione del paziente e non si conferma la diagnosi con imaging. La terapia conservativa non può sostituire la diagnosi accurata: senza un’identificazione corretta del quadro clinico, si rischia di trattare con antibiotici una perforazione in atto.
In conclusione, la mancata diagnosi di appendicite acuta è quasi sempre il risultato di una catena di sottovalutazioni: presentazione atipica, lettura parziale dei dati, affidamento eccessivo agli esami negativi, mancanza di rivalutazione, eccesso di sicurezza in diagnosi alternative. L’unico modo per prevenire l’errore è mantenere il sospetto attivo in ogni paziente con dolore addominale, monitorare l’evoluzione dei sintomi, integrare l’uso dell’imaging in modo razionale e coinvolgere precocemente il chirurgo.
L’appendicite è una diagnosi clinica prima ancora che radiologica. È una malattia del tempo, della progressione e del dettaglio. Riconoscerla in tempo salva l’appendice. Riconoscerla in ritardo salva ancora la vita. Ma non riconoscerla affatto può essere fatale. La prudenza, l’ascolto del paziente e la rivalutazione sistematica sono le armi migliori per non sbagliare. Anche nella più classica delle urgenze chirurgiche.
Quanto è pericolosa un’appendicite acuta non diagnosticata?
Un’appendicite non trattata può evolvere in poche ore verso:
- Perforazione dell’appendice, con fuoriuscita di pus e materiale intestinale;
- Peritonite diffusa, condizione potenzialmente letale;
- Ascesso addominale e necessità di drenaggio chirurgico urgente;
- Shock settico, con danno multiorgano;
- Resezioni intestinali nei casi più gravi;
- Morte, in assenza di tempestivo intervento.
Secondo i dati AGENAS, in Italia si verificano oltre 100.000 appendiciti all’anno, e gli esiti gravi o fatali sono quasi sempre legati a ritardi diagnostici o terapeutici.
Quando si configura la responsabilità medica?
La responsabilità medica per diagnosi mancata di appendicite acuta si configura quando il medico non riconosce i sintomi tipici o atipici della patologia, non attiva tempestivamente il percorso diagnostico previsto dalle linee guida, oppure ritarda l’invio alla consulenza chirurgica, determinando un aggravamento del quadro clinico con evoluzione verso perforazione, peritonite, ascesso o sepsi. L’appendicite rappresenta una delle cause più frequenti di addome acuto e, se trattata nelle fasi iniziali, ha un’eccellente prognosi. Al contrario, il ritardo diagnostico può comportare conseguenze anche gravi, rendendo necessarie procedure più invasive o mettendo a rischio la vita del paziente.
La presentazione classica prevede dolore addominale inizialmente epigastrico o periombelicale, successivamente localizzato in fossa iliaca destra, associato a nausea, vomito, inappetenza, febbricola e difesa muscolare. Tuttavia, la sintomatologia può essere atipica, soprattutto nei pazienti anziani, nei bambini piccoli, nelle donne in gravidanza o nei soggetti immunodepressi. In tali casi, il quadro può simulare infezioni urinarie, patologie ginecologiche, gastroenteriti o coliche intestinali. È proprio nei casi atipici che il medico è chiamato a esercitare una maggiore prudenza e a non sottovalutare l’ipotesi appendicolare.
L’errore più frequente è rappresentato dalla valutazione superficiale del paziente, con diagnosi presuntiva effettuata senza ricorrere ad alcun esame strumentale, oppure con il solo utilizzo di antidolorifici o farmaci antispastici. In presenza di dolore localizzato e sintomi associati, il primo livello di approfondimento dovrebbe prevedere almeno esami ematochimici e un’ecografia addominale. La leucocitosi, l’aumento della PCR e i segni di infiammazione locale sono già sufficienti per motivare la richiesta di una consulenza chirurgica urgente. Omettere questi passaggi diagnostici equivale a ignorare un quadro clinico potenzialmente evolutivo.
La responsabilità si aggrava se il paziente si è presentato più volte in pronto soccorso o dal medico curante con la medesima sintomatologia, senza mai ricevere una valutazione completa. Anche l’assegnazione di un codice di triage inappropriato o il rinvio a domicilio senza indicazioni chiare sui sintomi di allarme può configurare colpa medica. In molti casi documentati, l’appendicite è stata inizialmente trattata come gastroenterite o colica renale, e solo dopo la comparsa di febbre alta, leucocitosi marcata o segni di irritazione peritoneale, è stata ipotizzata la diagnosi corretta. A quel punto, però, la perforazione era già avvenuta. Il tempo, in questi casi, rappresenta il discrimine tra una laparoscopia semplice e un intervento chirurgico complesso con drenaggi e ricovero prolungato.
Anche la diagnostica per immagini riveste un ruolo centrale. L’ecografia addominale rappresenta il primo esame da eseguire, sebbene nei soggetti obesi o in caso di appendice retrocecale possa risultare poco sensibile. In questi casi, la TAC con mezzo di contrasto è lo strumento più efficace per confermare o escludere il sospetto. Se il medico si limita a un’ecografia negativa senza ulteriori indagini, nonostante il persistere del dolore e dei segni clinici, l’omissione della TAC può costituire elemento di responsabilità per imperizia.
La mancata attivazione della consulenza chirurgica è un ulteriore profilo critico. Il medico che si confronta con un sospetto di appendicite ha l’obbligo di coinvolgere lo specialista, anche in assenza di segni eclatanti. L’intervento precoce, laddove indicato, consente di evitare complicanze maggiori. Se il paziente viene trattenuto in pronto soccorso o in reparto per osservazione prolungata senza adeguato monitoraggio e senza evoluzione del percorso diagnostico, e nel frattempo sviluppa una peritonite diffusa, la responsabilità è pienamente configurabile sia a livello individuale che organizzativo.
In ambito medico-legale, il nesso di causalità tra la condotta del sanitario e il danno subito dal paziente si valuta in termini di perdita di chance: non si richiede la certezza che la diagnosi tempestiva avrebbe evitato ogni complicanza, ma la ragionevole probabilità che un trattamento anticipato avrebbe migliorato significativamente l’esito. Se la perforazione, l’ascesso, la sepsi o un decorso chirurgico più gravoso si verificano dopo ore o giorni di valutazioni inconcludenti, il danno è ritenuto prevedibile e prevenibile. Il giudizio si basa su ciò che un medico diligente avrebbe fatto nelle stesse circostanze.
La responsabilità può coinvolgere anche il medico di medicina generale qualora, in presenza di dolore addominale persistente o ingravescente, non invii il paziente al pronto soccorso o non ne consigli un controllo chirurgico urgente. Anche l’assenza di follow-up nei giorni successivi alla prima visita, in soggetti con sintomi ancora attivi, rappresenta un’omissione significativa. Nel contesto della medicina territoriale, il corretto orientamento diagnostico e il tempestivo rinvio costituiscono elementi fondamentali della diligenza richiesta.
Le strutture sanitarie rispondono quando il ritardo è dovuto a carenze logistiche o organizzative: assenza di personale, esami strumentali non disponibili, ritardi nel refertare, protocolli di gestione dell’addome acuto non applicati. Se il paziente è stato valutato correttamente ma la diagnosi è stata ritardata per mancanza di risorse, la colpa è imputabile all’organizzazione. In medicina d’urgenza, la tempestività non è una variabile facoltativa, ma un dovere strutturato e verificabile.
La documentazione clinica assume un valore cruciale. Laddove manchino descrizioni dettagliate dei sintomi, delle manovre esplorative, delle rivalutazioni e delle motivazioni alla base di una dimissione o di un’attesa, il principio del “non documentato = non fatto” trova piena applicazione. In sede giudiziaria, la difesa del sanitario risulta fortemente compromessa se la cartella non riporta elementi oggettivi a supporto della condotta tenuta. La buona pratica clinica deve riflettersi anche nella qualità della documentazione prodotta.
L’appendicite acuta è una patologia tempo-sensibile e relativamente semplice da diagnosticare se si applicano i criteri clinici e strumentali corretti. Quando la diagnosi viene mancata per disattenzione, sottovalutazione del quadro, o mancata applicazione delle linee guida, la responsabilità medica si configura non solo per l’errore, ma per aver privato il paziente della possibilità concreta di un trattamento rapido, efficace e risolutivo.
Quali sono le normative di riferimento?
- Legge Gelli-Bianco (Legge n. 24/2017), che disciplina la responsabilità sanitaria e la sicurezza delle cure;
- Art. 2043 Codice Civile, per il danno ingiusto da fatto illecito;
- Art. 2236 Codice Civile, che regola la responsabilità del professionista nelle attività complesse;
- Art. 1218 Codice Civile, per responsabilità contrattuale della struttura sanitaria;
- Art. 590 e 589 Codice Penale, per lesioni personali colpose e omicidio colposo per errore medico.
Quali sono gli esempi di risarcimento riconosciuto?
- Bambina di 9 anni dimessa tre volte dal PS con diagnosi di gastroenterite, deceduta per peritonite: risarcimento agli eredi di 1.300.000 euro;
- Appendicite non diagnosticata per 48 ore, con perforazione e shock settico: risarcimento di 1.100.000 euro;
- Paziente anziano dimesso con dolori addominali, ricoverato d’urgenza dopo 2 giorni con addome acuto: risarcimento di 980.000 euro;
- Ritardo di 36 ore nella diagnosi e intervento tardivo con complicanze post-operatorie: risarcimento di 890.000 euro.
A chi rivolgersi per ottenere un risarcimento?
In caso di appendicite non diagnosticata o trattata in ritardo, è fondamentale:
- Rivolgersi a un avvocato esperto in malasanità chirurgica e urgenze gastroenterologiche;
- Richiedere una perizia medico-legale per valutare il nesso tra errore e danno;
- Analizzare tutta la documentazione clinica: referti, cartella del pronto soccorso, esami omessi, tempi di intervento;
- Avviare un’azione legale in sede civile (o penale, in caso di decesso) per ottenere il giusto risarcimento.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità operano in sinergia con chirurghi legali, gastroenterologi e medici legali per garantire una difesa professionale, completa e mirata al risultato.
Conclusione
L’appendicite è una patologia nota e trattabile, ma quando un errore medico ne ritarda il riconoscimento, le conseguenze possono essere gravissime. Se ciò accade, la legge tutela il paziente e riconosce il diritto a ottenere un risarcimento per i danni subiti.
Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici: