Introduzione
Il cuore non perdona. Ogni minuto senza ossigeno può causare la morte di cellule miocardiche e compromettere per sempre la funzionalità cardiaca. Ecco perché le procedure che coinvolgono il sistema cardiovascolare – chirurgiche o interventistiche – devono essere eseguite con rigore assoluto, precisione tecnica e rispetto delle linee guida.
Un infarto miocardico che insorge dopo un intervento non è sempre una complicanza imprevedibile. In molti casi, è la conseguenza diretta di un errore tecnico del chirurgo. Può essere dovuto alla chiusura accidentale di un’arteria, all’errata manipolazione di uno strumento, all’insufficiente perfusione durante un bypass, all’inadeguata gestione di un’emorragia, alla distrazione di pochi secondi.

L’errore tecnico è ciò che, in una procedura complessa, trasforma un potenziale miglioramento in un danno permanente. Quando il cuore ne è vittima, le conseguenze sono gravi: invalidità, riduzione della capacità lavorativa, angina cronica, insufficienza cardiaca, morte.
In questo articolo analizziamo ogni aspetto legale e medico: Cos’è un infarto post-procedura? Come si riconosce? Quali sono gli errori tecnici più frequenti? Cosa prevede la legge? Come si può dimostrare la responsabilità? Quanto può valere un risarcimento? Nella parte finale, descriviamo le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità, che seguono con rigore scientifico-legale i casi più gravi di danno cardiaco da errore medico.
Ma andiamo ora ad approfondire con gli avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità.
Cos’è un infarto post-procedura?
È un evento ischemico acuto del miocardio che si verifica a seguito di un intervento chirurgico o interventistico.
Può insorgere:
- Dopo interventi cardiochirurgici (bypass, valvole)
- Dopo procedure vascolari (angioplastica, stent)
- In seguito a operazioni generiche (ortopedia, chirurgia addominale) con compromissione circolatoria
L’infarto post-operatorio è sempre un segnale d’allarme. E deve essere indagato con attenzione.
Quando è causato da un errore tecnico chirurgico?
- Quando viene lesionata un’arteria coronarica durante la procedura
- Quando il bypass è mal posizionato o non funziona
- Quando si verifica una trombosi evitabile nel sito operatorio
- Quando non viene assicurata una perfusione adeguata
- Quando si ignorano segni ischemici nel post-operatorio
- Quando non si controlla la coagulazione o il flusso ematico
L’errore tecnico non è una complicanza. È una violazione delle regole di buona pratica.
Quali sono i segnali clinici di un infarto post-operatorio?
- Dolore toracico acuto
- Dispnea
- Sudorazione fredda
- Alterazioni dell’ECG
- Aumento della troponina
- Tachicardia o aritmie
- Stato di shock
Un monitoraggio attento può fare la differenza tra diagnosi precoce e danno irreversibile.
Quali sono le cause più frequenti degli errori e delle complicanze in caso di infarto post procedura per errore tecnico chirurgico?
L’infarto miocardico che si verifica dopo una procedura chirurgica non è mai una complicanza da sottovalutare. Quando accade, può manifestarsi con sintomi chiari e immediati, oppure in modo subdolo, nelle ore o nei giorni successivi all’intervento. In entrambi i casi, però, è essenziale distinguere ciò che è inevitabile da ciò che è frutto di una responsabilità medica. Perché non sempre l’infarto è causato dalla patologia preesistente del paziente. In molti casi è l’esito diretto di un errore tecnico durante la procedura chirurgica. E allora non si parla più di complicanza, ma di colpa. Di un evento evitabile, prodotto da un gesto sbagliato, da una decisione errata o da una valutazione incompleta.
La prima grande causa di infarto post-operatorio da errore chirurgico è la lesione intraoperatoria di una coronaria o di un ramo arterioso. Può accadere in modo accidentale durante interventi toracici, cardiochirurgici o anche non direttamente legati al cuore. In alcune procedure, come la chirurgia valvolare, il posizionamento di protesi può interferire con l’origine delle arterie coronarie. Se si verifica un’ostruzione parziale o una compressione del flusso, l’ischemia diventa silenziosa, ma devastante. Il paziente esce dalla sala operatoria apparentemente stabile, ma in realtà sta andando incontro a un danno miocardico che esploderà nelle ore successive.
Un’altra situazione comune è il mal posizionamento o l’inadeguata sutura di un bypass coronarico. Quando il vaso di derivazione non viene correttamente anastomizzato, o se l’innesto è sottoposto a torsione, kink, occlusione precoce, il flusso ematico non raggiunge la zona ischemica. Il risultato è un infarto che si manifesta subito dopo l’intervento, o che viene scoperto solo quando il paziente riferisce dolore toracico, dispnea, alterazioni dell’elettrocardiogramma. A quel punto, l’ecocardiogramma mostra la riduzione della contrattilità di una parete, e l’intervento che doveva salvare il cuore lo ha danneggiato.
Ci sono poi errori tecnici legati alla mancata protezione del cuore durante la circolazione extracorporea. In alcune procedure, il cuore viene arrestato e protetto con soluzioni cardioplegiche. Ma se la protezione non è uniforme, se la temperatura non è adeguata, se la perfusione non viene controllata accuratamente, alcune aree del miocardio restano scoperte. Un danno ischemico può verificarsi già sul tavolo operatorio, senza che nessuno se ne accorga. Quando il cuore viene riattivato, parte con una forza ridotta, e l’infarto è già avvenuto.
Un altro errore frequente è la gestione non corretta dei clampaggi e delle riaperture vascolari. Durante alcune fasi dell’intervento, è necessario interrompere e poi ripristinare il flusso coronarico o sistemico. Ma se la riapertura è troppo brusca, o se i clampaggi sono troppo lunghi, il cuore può andare incontro a un danno da riperfusione, o a uno spasmo coronarico massivo. La circolazione si ripristina, ma i tessuti, ormai danneggiati, non reagiscono più. Il miocardio si necrotizza. E l’infarto non è più una possibilità: è una certezza.
In altri casi, l’infarto è provocato da un errore nel posizionamento di dispositivi protesici o valvolari. Alcune valvole aortiche possono ostruire parzialmente l’ostio coronarico sinistro. Se non viene valutata la distanza tra valvola e arteria, se non si eseguono test accurati prima dell’impianto, il rischio di bloccare il flusso è elevato. Questo accade anche in procedure di TAVI, in cui una valvola biologica viene inserita per via percutanea. Una valutazione preoperatoria insufficiente può trasformarsi in un infarto letale.
Altre volte, l’infarto avviene per una gestione farmacologica inadeguata nel post-operatorio. Alcuni pazienti necessitano di antiaggreganti, anticoagulanti, controllo pressorio stretto, terapia specifica per evitare trombosi. Se questi farmaci non vengono somministrati con precisione, o se si sospendono in modo errato per paura di emorragie, il sangue coagula proprio dove non dovrebbe: nel punto dell’anastomosi, nello stent, nel bypass. E così, il miocardio si ritrova senza sangue, senza ossigeno. E muore.
Ci sono infarti che avvengono per banali errori di vigilanza. Il paziente riferisce dolori atipici, senso di pesantezza al petto, difficoltà a respirare. Viene rassicurato: “è normale dopo l’intervento”, “è solo un po’ di ansia”, “è il torace che fa male per la sternotomia”. Nessuno chiede un ECG. Nessuno controlla la troponina. Nessuno pensa che dietro quei sintomi si stia consumando un evento ischemico. E il danno diventa irreversibile per mancanza di ascolto.
In molti casi, quando si verifica un infarto dopo l’intervento, non viene detto nulla al paziente o ai familiari. Si parla di “sofferenza miocardica”, di “reazione attesa”, di “difficoltà temporanea”. Ma dietro quelle parole c’è un errore chirurgico, un bypass chiuso, un vaso lesionato, un farmaco non dato, un tempo operatorio eccessivo. E il paziente si ritrova con un cuore più debole di prima. Con una frazione di eiezione dimezzata. Con un’aspettativa di vita accorciata.
Dal punto di vista medico-legale, l’infarto post procedura è un evento che va analizzato con attenzione. Se l’intervento è stato eseguito secondo le linee guida, se le condizioni del paziente erano ad alto rischio, se ogni precauzione è stata adottata, allora si può parlare di complicanza. Ma se emerge che il bypass era mal posizionato, che la coronaria è stata danneggiata, che mancavano i controlli, che le terapie erano inadeguate, allora si configura una responsabilità sanitaria piena.
Le conseguenze per il paziente sono spesso gravi. Riduzione della capacità cardiaca, necessità di nuovi interventi, dipendenza da farmaci per tutta la vita. Alcuni entrano in uno stato di invalidità. Altri perdono autonomia. Altri ancora muoiono, dopo giorni di peggioramento progressivo, senza che nessuno abbia chiarito cosa sia realmente accaduto. E ciò che fa più male non è sempre l’infarto in sé, ma il silenzio che lo circonda.
Quando un cuore viene operato, si merita rispetto. E il rispetto passa per la precisione chirurgica, per la vigilanza post-operatoria, per l’onestà nella comunicazione. L’infarto può essere una sconfitta della medicina. Ma quando nasce da un errore evitabile, diventa una sconfitta della fiducia. E chi ha provocato quell’errore, deve assumersene la responsabilità.
Cosa dice la legge?
- Art. 1218 c.c. – Inadempimento del contratto di cura
- Art. 2043 c.c. – Danno ingiusto causato da colpa
- Legge 24/2017 (Gelli-Bianco) – Obbligo di attenersi alle linee guida
- Art. 2236 c.c. – Anche nei casi complessi, l’errore tecnico non è giustificabile se evitabile
Quando si configura la responsabilità medica per infarto post procedura dovuto a errore tecnico chirurgico?
La responsabilità medica per infarto insorto dopo una procedura chirurgica si configura ogniqualvolta l’evento cardiaco acuto sia riconducibile non a un peggioramento spontaneo del quadro clinico, ma a un errore tecnico durante l’intervento, a una scelta chirurgica sbagliata, a una lesione evitabile o a una gestione intraoperatoria o postoperatoria non conforme agli standard di diligenza medica. L’infarto miocardico acuto che si verifica a poche ore o a pochi giorni da una procedura invasiva – sia essa vascolare, ortopedica, addominale, cardiaca o anche solo diagnostica – non è mai un evento da archiviare frettolosamente come “complicanza inevitabile”. È un evento che va indagato a fondo, perché può essere il risultato diretto di un errore commesso durante la procedura.
Un infarto postoperatorio può essere la conseguenza di una lesione diretta alle coronarie durante interventi cardiaci, toracici o vascolari; può derivare da un embolo generato da manovre maldestre; da una ischemia prolungata causata da ipotensione mal gestita; da una chiusura inadeguata di un’anastomosi arteriosa; oppure da uno spasmo vasale legato a manipolazioni errate. In molti casi, il problema non è nella patologia del paziente, ma nella condotta del chirurgo. Un errore nel clampaggio, una sutura troppo serrata, un’emorragia non riconosciuta, un tempo operatorio eccessivo senza supporto emodinamico: tutto può innescare una cascata ischemica che porta al danno miocardico.
Ancora più grave è il caso in cui l’evento infartuale inizia a manifestarsi già durante o subito dopo la procedura, ma non viene riconosciuto. Il dolore toracico, l’alterazione del tracciato ECG, la tachicardia, la pressione che scende, il paziente che riferisce un senso di oppressione o di affanno: tutti segnali che devono immediatamente attivare il sospetto e portare a una diagnosi tempestiva. Se invece vengono minimizzati, se si parla genericamente di “stress postoperatorio”, se non viene eseguito un dosaggio urgente della troponina, un ECG, un’ecocardiografia, la responsabilità si configura anche per ritardo diagnostico. E nei casi in cui la diagnosi arriva troppo tardi, le conseguenze sono spesso irreversibili.
Inoltre, la responsabilità può derivare da errori nella gestione farmacologica intraoperatoria. La somministrazione di farmaci inotropi, vasocostrittori, anticoagulanti o protaminici richiede un bilanciamento preciso. Una dose sbagliata, un’interazione non valutata, un anticoagulante sospeso troppo presto o troppo tardi può provocare o favorire un infarto. Anche l’uso improprio di adrenalina, l’omissione di profilassi antitrombotica in pazienti ad alto rischio o l’eccessiva somministrazione di liquidi possono aggravare una situazione già compromessa.
Il problema si complica ulteriormente quando il paziente, dimesso o trasferito in reparto dopo l’intervento, inizia a peggiorare senza che nessuno se ne accorga. Un dolore toracico non deve mai essere ignorato nel post-operatorio, soprattutto in soggetti cardiopatici, diabetici o anziani. Se non si attiva un monitoraggio, se il paziente non viene sorvegliato costantemente, se non si dispone di un protocollo che impone ECG seriati o controllo enzimatico nei primi giorni, la gestione diventa gravemente negligente.
Le conseguenze di un infarto postoperatorio mal gestito sono spesso gravissime. Il paziente può sviluppare un’insufficienza cardiaca acuta, aritmie maligne, shock cardiogeno, arresto cardiaco. Anche nei casi non fatali, l’infarto lascia spesso esiti: una frazione d’eiezione ridotta, limitazioni funzionali, necessità di farmaci cronici, invalidità lavorativa. E a tutto questo si aggiunge la sofferenza psicologica. Il paziente che entra in sala operatoria per un problema e ne esce con un cuore danneggiato si sente tradito, spaventato, arrabbiato. Non riesce a capire come, in un ambiente protetto, sia potuto succedere un danno tanto grave e spesso permanente.
Dal punto di vista legale, la responsabilità medica si inquadra come contrattuale ai sensi dell’articolo 1218 del Codice Civile. Il paziente – o i familiari, in caso di decesso – devono dimostrare che l’infarto è avvenuto in prossimità temporale della procedura, e che la gestione clinica è stata lacunosa. Spetterà al medico e alla struttura dimostrare che l’intervento è stato eseguito correttamente, che le condizioni emodinamiche sono state monitorate e che l’evento non era evitabile. In mancanza di tracciati ECG, esami post-operatori, annotazioni coerenti in cartella clinica, la responsabilità si presume. E il risarcimento può essere molto elevato, in proporzione alla gravità del danno.
Il consenso informato non protegge il medico dall’errore tecnico. Nessun paziente firma per accettare una gestione inadeguata, una manovra errata o un trattamento farmacologico mal dosato. Il consenso è valido solo se l’intervento è eseguito secondo le buone pratiche cliniche e se ogni rischio viene affrontato con competenza. Se l’infarto deriva da una lesione evitabile, da una condotta imprudente o da un’omessa sorveglianza, non è una fatalità: è una colpa.
In conclusione, la responsabilità medica per infarto post procedura dovuto a errore tecnico chirurgico si configura ogniqualvolta l’evento acuto non sia la naturale evoluzione di una malattia preesistente, ma la conseguenza di una manovra sbagliata, di una pianificazione inadeguata o di una gestione clinica deficitaria. La chirurgia non finisce con l’ultimo punto di sutura: finisce solo quando il paziente è fuori pericolo. E se nel tragitto verso la guarigione qualcosa va storto per mano di chi doveva vigilare, allora il danno non è solo clinico, ma anche giuridico. Perché ogni errore lasciato senza nome è un errore che si ripeterà. E chi lo ha subìto ha diritto a un riconoscimento, a un risarcimento, e soprattutto a verità.
Esempi concreti?
Uomo di 67 anni, infarto post bypass coronarico. Anastomosi mal posizionata. Ischemia anteriore massiva. Risarcimento: 510.000 euro.
Donna di 61 anni, infarto dopo angioplastica. Uso errato del palloncino. Dissezione arteriosa. Esiti invalidanti. Risarcimento: 440.000 euro.
Paziente di 58 anni, infarto post-valvuloplastica. Ostruzione non diagnosticata. Ritardo nell’intervento. Morte. Risarcimento ai familiari: 630.000 euro.
Quanto può valere un risarcimento?
- Danno lieve con recupero: 50.000 – 100.000 euro
- Infarto con invalidità permanente: 150.000 – 300.000 euro
- Reintervento e terapia cronica: 300.000 – 500.000 euro
- Morte del paziente: risarcimento fino a 700.000 euro ai familiari
Quanto tempo si ha per agire?
- 10 anni per cause contro strutture sanitarie private
- 5 anni per strutture pubbliche o personale dipendente
- Il termine decorre dal momento della consapevolezza del danno (non sempre coincide con l’evento)
Quali documenti servono?
- Cartella clinica completa
- Referti ECG e troponina
- Referto angiografico o coronarografico post-evento
- Tracciati intraoperatori
- Referti di esami pre-operatori (eco, scintigrafia, stress test)
- Perizia medico-legale e cardiologica
Cosa può fare l’avvocato?
- Ottenere e analizzare tutta la documentazione clinica
- Collaborare con cardiologi e chirurghi forensi
- Ricostruire le fasi dell’intervento e del post-operatorio
- Dimostrare il nesso tra errore tecnico e infarto
- Avviare mediazione e successiva azione legale
- Quantificare il danno biologico, morale, patrimoniale
Le competenze degli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità
Un infarto post-operatorio che poteva essere evitato è un fallimento tecnico e umano. Non solo per le conseguenze fisiche sul paziente, ma per il tradimento della fiducia nella sanità. Quando un cuore si spezza per un errore, la legge deve intervenire per ricostruire giustizia.
Gli Avvocati di Risarcimenti Danni Malasanità lavorano con un team multidisciplinare che comprende:
- Cardiochirurghi e cardiologi esperti in contenziosi sanitari
- Rianimatori e medici legali specializzati in danni anossici e ischemici
- Consulenti del lavoro e attuari per il calcolo dei danni futuri
Ogni caso viene trattato con rigore tecnico e visione umana. L’errore viene ricostruito nei dettagli, dall’analisi degli strumenti utilizzati fino alla gestione delle emergenze.
Nessun infarto da errore chirurgico deve restare senza voce. Nessuna vita danneggiata deve essere lasciata senza tutela.
Chi ha subito un danno al cuore ha diritto a ricevere qualcosa che non riparerà il cuore, ma potrà almeno riparare la giustizia.
Qui di seguito tutti i riferimenti del nostro Studio Legale specializzato in risarcimento danni da errori medici: